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Four good days – la recensione del film con Glenn Close e Mila Kunis

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Nel 2020 il noto regista Rodrigo García, dopo una pausa cinematografica di cinque anni che lo separa dal suo ultimo film, Last days in the desert, e di ben nove anni dal suo ultimo grande successo, Albert Nobbs, torna a lavorare per il grande schermo. Il risultato del suo processo creativo è Four good days (talvolta altresì indicato con il titolo italianizzato di Quattro buone giornate). La pellicola, di ordine marcatamente drammatico, nei suoi cento minuti di durata ricama sul tema della dipendenza da sostanze stupefacenti, un filone tanto rappresentato quanto apparentemente fortunato in ambito cinematografico. La narrazione si innesta sulla base dell’articolo giornalistico scritto da Eli Saslow, intitolato How’s Amanda? A story of truth, lies and an American addiction, comparso nel 2016 sul Washington Post.

Four good days

La trama del film

La placida vita borghese dell’apparentemente imperturbabile Deb (Glenn Close) e del suo nuovo marito Chris (Stephen Root) viene sconvolta dal ritorno – che si scopre essere l’ennesimo di una lunga serie di disastrose riapparizioni – di Molly (Mila Kunis), figlia della donna. La giovane, logorata da anni di prolungato abuso delle più svariate sostanze stupefacenti, dichiara di essere intenzionata a disintossicarsi. Deb però, dopo decenni di promesse, diffida della figlia, la quale appare allibita a fronte del mancato supporto materno. Dopo una burrascosa ripresa del rapporto tra le due donne, tuttavia, grazie ad un medico queste ultime vengono a conoscenza di un’iniezione che, se effettuata una volta al mese, risanerà definitivamente la giovane.

Al contempo madre e figlia scoprono però che, prima che possa essere effettuata la prima iniezione, Molly deve ripulire il proprio organismo tramite un periodo di completa astinenza della durata di quattro giorni, altrimenti la cura potrà risultarle fatale. La madre, recuperata la fiducia nella buona volontà della figlia, la accoglie sotto la propria ala protettiva senza mai mancare di monitorarla severamente, in modo intransigente e ferreo. Nelle lunghe ore di convivenza, però, alle crisi di astinenza di Molly si sommeranno decenni di rabbie e frustrazioni represse fra le due donne. Le criticità nel loro rapporto non tarderanno a riemergere, mettendo a repentaglio il compimento dei quattro giorni di disintossicazione previsti.

Four good days – due buone protagoniste schiacciate dal peso di una trama scontata

Tra i vari filoni tematici che da sempre hanno orbitato attorno nucleo del cinema gradito ai più si è sempre annoverato il macro-tema della dipendenza, trattato nelle più svariate accezioni. E se già ne sapeva qualcosa Otto Preminger, che con il suo L’uomo dal braccio d’oro nel 1955 si interfacciò il topos in chiave filmica forse per la prima volta, il cinema recente ha confermato a più riprese questa tendenza. Dallo smantellamento del tabù, con Trainspotting, alla tecnica più angosciosa, con Requiem for a dream, passando per lo sperimentalismo giocoso di Paura e delirio a Las Vegas, il cinema (ma soprattutto Hollywood, nello specifico) ha imparato che la sola idea della droga sembra magneticamente attrarre il pubblico verso la sala. È lecito immaginare che un film come Four good days ambisse ad innestarsi su queste granitiche premesse, ma non altrettanto solido si rivela il risultato finale a visione ultimata.

In uno schema simmetricamente coincidente a quello dell’altrettanto recente (e francamente più riuscito) Beautiful boy, Four good days si colloca nella straziante nicchia tematica costituita dal rapporto fra la vittima di dipendenza e la relativa figura genitoriale, a sua volta schiava della condizione della prole. Ma l’errore del lungometraggio, forse, è proprio quello di approcciare alla tematica con la convinzione di realizzare un prodotto per sua natura riuscito ancor prima di potersi a ragion veduta dire tale. Matematicamente certo del buon esito a cui porta la formula alla quale ricorre, il film nella sua interezza è punteggiato da una serie di luoghi comuni vagamente avvilenti (soprattutto considerata la complessità del delicato argomento trattato), che anziché elevare la pellicola tendono piuttosto ad affossarla definitivamente.

Nella sua seppur breve durata, Four good days trasporta sul grande schermo una sconfortante sequela di luoghi comuni legati al tema, di dinamiche situazionali già viste e battute già sentite, di fronte alle quali l’impressione più immediata è quella di non star osservando un prodotto originale ma un collage maldestramente realizzato di opere già esistenti. Dato il tanto – probabilmente troppo – spazio concesso in questa pellicola a cliché narrativi connaturati alla tipologia a cui appartiene, l’effetto sorpresa viene immancabilmente meno. E in questo, anche la suspense derivante dall’interrogativo sulla base di cui si innesta l’intero film (riuscirà Molly a mantenersi lontana dalle sostanze stupefacenti per i quattro giorni previsti?) si spegne ancor prima di accattivare il pubblico, portando ad un esito narrativo che sarebbe limitante definire prevedibile.

Di fronte a questo, e ad una regia tanto pulita (e priva di personalità) da apparire pressoché invisibile, poco margine d’azione resta alle capaci interpreti principali per ribaltare gli esiti del film. E, infatti, la retorica narrativa pare gravare persino sui loro personaggi, ridimensionando le conclamate doti di Kunis e, soprattutto, di Close. La prima, forse neofita in un panorama di pellicole così marcatamente drammatiche, approccia il tema con la giusta attitudine e traspaiono, fra le righe, frammenti di potenzialità purtroppo rimaste pressoché inespresse data la natura del film stesso. La seconda, illustre e conclamata interprete, finisce suo malgrado per annullarsi, schiacciata dalla stereotipicità e dalla retorica del suo personaggio.

Four good days

Il potenziale era evidente in un prodotto di questa natura. Ma, proprio in considerazione di quest’ultimo, Four good days finisce per apparire come la summa dei più erronei cliché cinematografici sul tema della dipendenza. Non è certo tutto da buttare, ma data l’evidente ambizione alla base del progetto è purtroppo lecito affermare che il dimenticabile ha la meglio su ciò che invece del film si potrebbe salvare. Partendo dall’evidente intento di voler essere un brillante esemplare del topos cinematografico sulla dipendenza, la pellicola di Rodrigo García rischia di essere solo una tra le tante (e, malgrado gli sforzi, neanche tra le migliori).

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Four good days attinge al pozzo tematico della dipendenza, ampiamente utilizzato e apprezzato al cinema, ma dimostra di poggiarsi con forse troppa comodità sopra agli stereotipi e ai luoghi comuni del filone narrativo, svilendo invece gli aspetti più positivi della pellicola.
Eleonora Noto
Eleonora Noto
Laureata in DAMS, sono appassionata di tutte le arti ma del cinema in particolare. Mi piace giocare con le parole e studiare le sceneggiature, ogni tanto provo a scriverle. Impazzisco per le produzioni hollywoodiane di qualsiasi decennio, ma amo anche un buon thriller o il cinema d’autore.

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