Cosa resta della rivoluzione la trama del film di Judith Davis
Controintuitivo e tutt’altro che semplice è ricollocare nella moderna società liberale gli ideali comunisti ex-sessantottini con cui si è cresciuti, specie se a quella rivoluzione è legato l’impianto della propria famiglia, l’educazione ricevuta, uno sguardo sul mondo e su cosa aspettarsi da esso. Passione politica e disvelamento della propria intimità sono due universi non contigui, ma potenzialmente interdipendenti.
Così Angèl (Judith Davis) si trova a trent’anni in conflitto rumoroso e disordinato con due generazioni, quella dei propri genitori e la sua: la prima colpevole di aver fatto la rivoluzione, chiusa in un attivismo ideale di cui non si sapevano e forse non si volevano controllare le conseguenze concrete e l’impatto nel tempo, libera in tutto e per tutto, innocente ed agevolata perché pioniera, dilettante a suo modo, dunque, a suo modo, assolvibile; la seconda colpevole di non averla fatta la rivoluzione ma subita, in totale confusione per l’incapacità di adattare al contemporaneo quel modo di pensare militante, smarrita cronicamente nei limiti oggettivi che capitalismo e consumismo ricordano in modo forsennato, in caduta libera verso l’oblio, tra imbarazzo e biasimo collettivi, in opposizione, spesso anacronistica, verso ciò che si sospetta sprovvisto di etica, arrabbiati, fragili, troppo empatici, insicuri utopisti figli di anime brade e piedi pesanti, che hanno smesso non pacificamente di sognare.
La famiglia del racconto comprende il padre (Simon Bakhouche) che vive nel ricordo del maoismo e delle sue azioni collettive da attivista, la madre (Mireille Perrier) un ricordo fotografico in bianco e nero, che ha lasciato la famiglia e quel modo di stare al mondo quando la figlia aveva solo otto anni per cercare un altro tipo di vita, gettando non poche ombre nell’immaginario della bambina, la sorella Noutka (Melanie Bestel) perfettamente integrata nel quotidiano borghese tra ufficio e calendario da multinazionale: c’è solo, lei, Angèl, ad essere irrisolta, sospesa a metà, immersa in una rivoluzione non condivisa, scissa tra la statura del suo furore e la bassezza di ciò che la circonda, coetanee in tailleur, madri e moglie omologate, Mac Donald ogni quattro incroci, cementificazione d’arrembaggio, suv ed ipertecnologia, incapace di rassegnarsi alle solitudini metropolitane e all’abbandono dell’ascolto reciproco.
Dall’alto dei suoi trent’anni ha scelto di essere urbanista perché crede nella costruzione di strade, ponti, città, aree che possano divenire luoghi comuni di incontro e socializzazione, ma il suo è uno di quei posti di lavoro che oggi ci sono e domani non più, precario per definizione, sfruttato, discriminato, sacrificabile, in cui è evidente il gap di possibilità ed interessi tra chi detta le regole e chi viene arruolato per applicarle, e la ragazza non riesce a tacere, punta i piedi, invoca ragioni con modi a stento digeribili, per cui, inevitabilmente, viene licenziata.
Costretta a tornare a casa dal padre, in attesa di trovare una nuova occupazione, Angel sente il peso della distanza tra sé ed il resto, l’ altro da sè, uno spazio che vorrebbe, ma non riesce a chiamare comunità: coinvolge degli amici nella fondazione di un piccolo club di appassionati di politica, in cui vige la libera parola, il confronto, l’euforia a tutti i costi per un tema da dibattere, una fede da rincorrere e dichiarare, con l’obiettivo incrollabile delle manifestazioni di allora ossia cambiare il mondo in meglio. Tra tentativi di normalità mediata da un’indole pasionaria, la giovane prova maldestramente ad innamorarsi anche se parte con il freno a mano tirato, indecisa tra l’istinto e la premeditazione, il calcolo e la rivoluzione, mentre prova a dare forma autentica alla sua identità, riallacciando i fili con la famiglia: obiettivo è carpirne destini e verità, comprendere da dove provenga l’impeto entusiasta e l’accanimento dimostrato così spesso nelle cose, atteggiamenti che allontanano da lei, o le rendono difficile ed impegnativo quasi ogni tipo di rapporto, dare ragione al vuoto e alla vulnerabilità smaccata da cui, in situazioni cruciali, viene del tutto assorbita.
La recensione e l’analisi del film
Attrice e regista, al suo esordio dietro la macchina da presa, Judith Davis sceglie di portare su grande schermo L’avantage du doute, pièce nata da un laboratorio teatrale di cui lei stessa ha fatto parte, portato all’epoca sul palco, qui riproposto in una commedia patchwork, a tratti disorganica, a tratti illuminante, ironica ed amara, che cuce insieme situazioni limite e porta a riflettere sulle incongruenze che le rivolte politico-culturali hanno lasciato e su quanto i giovani siano lungi dall’esserne indifferenti, al contrario ne soffrano e sperino ancora nel cambiamento: è il peso del non avverato, il mondo migliore promesso dai padri e mai accaduto, la giustizia sociale pericolosamente latitante, la libertà, l’eguaglianza e la fraternità della rivoluzione storica per antonomasia di cui oggi si perdono le tracce.
Nascere tardi per non vedere come un’idea possa applicarsi, sentirsi fuori tempo massimo per ribellarsi come i propri genitori le hanno insegnato a fare, avere il mondo in direzione ostinata e contraria quasi sempre, prendersela con i propri datori di lavoro fagocitatori della sua energia, con i bancomat per strada, con le banche schiaviste e ladre, con parenti imprenditori cinici, con amici non schierati in modo appropriato, con un amore che fa vacillare e tirarsi indietro, con una madre fantasma a cui chiedere risposte, con una forza che si trasforma in debolezza: questo è l’humus di Angèl.
Il profitto, l’allineamento, la banalizzazione del desiderio, l’estro in vendita al miglior offerente, la difficoltà di elaborare un pensiero autonomo, la sottovalutazione dell’ indipendenza dell’individuo, sono le malattie dei nostri popoli, ma parlarne, rivendicarne la natura tossica, indignarsi a causa loro, farci una rivoluzione sopra, è ancora oggetto di storture di naso, oppure è considerato miraggio folcloristico, che lascia il tempo che trova, perso nel romanticismo da strada, nella convulsione della quotidianità, incapace di attecchire nel profondo; la memoria del passato ha solo il volto ed i vestiti di due genitori che hanno smesso di scegliersi e si sono allontanati, con piccole vendette personali, usando i figli come trofeo o come valvola di sfogo per le personali insoddisfazioni, a ricalcare, forse anche in peggio, il comportamento di qualunque tecnocrate incravattato.
Il tono sbarazzino e l’approccio da arrembaggio stemperano lo spessore degli interrogativi che a stento sono contenuti ed approfonditi nel film, eppure non rinunciano a fare capolino con un coraggio caparbio di cui si prende atto ed un sapore nettamente più poetico nella seconda metà del film: episodi sopra le righe, situazioni estreme che stonano e sono portate volutamente all’eccesso, parola gridata, che da verbosa inciampa e si fa sillaba, poi silenzio, spesso sguardo, per facilitare certa comprensione intima e scarnificarne altra, quella politica, che non gode di buon ascolto. Un reciproco ascolto molto plastico e radicale in ogni frammento, perché la posta in gioco è sempre percepita come questione di vita o di morte. Dietro queste manovre non troppo coordinate, ma oggettivamente coraggiose, sembra di vedere una generazione orfana, che reclama gli statisti di cui è denutrita, che non sa più parlare di politica o a cui non si sa più parlare di politica (in questo senso il recente Alice e il sindaco, guarda caso sempre made in France, è estremamente significativo).
Tra groviglio politico ed incompiutezza personale, con un monologo finale di raro acume e crudeltà per una scena in cui probabilmente al fallimento rappresentato, corrisponde il fallimento personale di chi parla, esempio di modello capitalistico schiantato sull’individuo, la rivoluzione della Davis si fa ricordare per gli spigoli non arrotondati che lascia da mal digerire al pubblico, i sorrisi non liberatori che l’alienità della sua protagonista diffonde pur non volendo nello spazio che occupa, ed un concetto di lotta, sia per scopi pubblici che privati, scomoda, non risolutiva, che auto identifica e vivifica sempre chi ne porta la bandiera, specie in un’epoca che alla lotta in modo blando e gradasso, si è disabituata.