Copenhagen Cowboy è una miniserie televisiva di genere noir e thriller, creata da Nicolas Winding Refn per conto di Netflix. È stata presentata in anteprima alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, per poi sbarcare in streaming per intero il 5 gennaio 2023. L’opera risulta essere la seconda in lingua danese di Winding Refn, autore già noto per la serie televisiva targata Amazon Too old to die young e per i film Bronson, The Neon Demon e Driver, grazie al quale ha vinto il premio al miglior regista nel 64° Festival del Cinema di Cannes.
Copenhagen Cowboy cast
Il cast principale di Copenhagen Cowboy si compone di Angela Bundalovic (Miu), Li Li Zhang (Madre Hulda), Andreas Lykke Jørgensen (Nicklas), Jason Hendil-Forssell (Chiang), Zlatko Burić (Miroslav), Emilie Xing Tong Han (Ai), Hok Kit Cheng (Ying), Valentina Dejanovic (Cimona), Ramadan Huseini (André), Dragana Milutinović (Rosella), Lola Corfixen (Rakel), Slavko Labovic (Dusan), Fleur Frilund (Jessica) e Per Thiim Thim (Sven).
Copenhagen Cowboy trama
Copenhagen Cowboy racconta le vicende di Miu, una giovane e gracile ragazza che ha la nomea di “portafortuna vivente”, un potere che le consente di influenzare positivamente persone e cose nelle sue vicinanze. Questa abilità viene sfruttata da Rosella, una donna di mezz’età facente parte di una cosca di immigrati slavi dedita alla prostituzione illegale, in cerca di fortuna, in particolare di una gravidanza ormai non più biologicamente possibile. Non attendendo le aspettative della matrona, Miu viene affidata al fratello della stessa, André, che gestisce il traffico di donne e un bordello illegale, in modo da costringere la ragazza a prostituirsi. Durante il suo periodo di prigionia forzata, Miu fa amicizia con un’altra donna costretta a prostituirsi da André, chiamata Cimona, con la quale deciderà di scappare. Quest’ultima però, durante la fuga, viene adescata e uccisa da un avventore del bordello. Il fatto smuove i sentimenti di Miu e la fa discendere in un turbine di vendetta, tanto che la gracile, ma non indifesa, ragazza riuscirà ad introdursi nel sottobosco criminale di Copenhagen. La sua ricerca la porterà a incontrare un boss della malavita di origine cinese che soffre di emicranie, una donna in cerca della figlia, uno spacciatore con grandi piani, il killer di Cimona stesso e sua sorella, una donna per molti versi uguale e contraria a Miu.
Copenhagen Cowboy recensione
Dopo l’ottima Too old to die young, Nicolas Winding Refn torna a dirigere per il piccolo schermo in modo più peculiare: Copenhagen Cowboy risulta essere una sorta di manifesto anti-serie, un gioiello cinematografico che abbatte senza farsi scrupoli le barriere che ancora dividono i prodotti pensati per la televisione e quelli invece legati alla Settima Arte. Un’opera totale, che si avvicina più al plasticismo tipico del cinema rispetto al dinamismo delle serie tv.
Se ridotta ai minimi termini, Copenhagen Cowboy non è altro che una favola nera, un neo-noir soprannaturale: infatti, tra gli ingredienti principali dell’originale Netflix si trovano una protagonista stoica e dalle origini incerte, personaggi dai chiari connotati favolistici e fantastici, un certo simbolismo nella messa in scena e le riprese di luoghi naturali in qualità di ricettacoli di un determinato significato narrativo. I boschi, in particolare, assumono in quest’ottica un ruolo di rilevanza: in essi sono infatti ambientate le epifanie e le transizioni narrative che permettono all’intreccio di svilupparsi. Oltre a ciò, nella serie risulta essere importante anche il parallelismo tra i vizi umani e i tratti animaleschi, la maggior parte delle volte espresso mediante un’analogia tra uomini e maiali.
Ispirata dai western, dai rape e dai revenge movies, Copenhagen Cowboy è un’odissea, un viaggio abitato da personaggi la cui matrice è già fortemente radicata all’interno della poetica del regista: essi sono inscrutabili, apparentemente apatici, stilosi, tenaci e decisamente controcorrente. Un cammino dell’antieroina, Miu, che viene accompagnata dai suoi Caronti nelle viscere di una Copenhagen oscura, misteriosa, a tratti trascendente, la quale inghiotte il pubblico in un buco nero di dinamiche dalla forte connotazione mystery e noir.
Dal punto di vista estetico, la serie esalta nello spettatore i dogmi estetici per cui il suo creatore è conosciuto, grazie all’utilizzo dei contrasti e delle luci al neon. In particolare, la dicotomia tra il rosso e il blu è quella più presente, oltre ad essere quella più efficace nell’ambito del significato che vuole trasferire: un mondo diviso dall’antagonismo tra luce paradisiaca e luce infernale, che trova il suo punto di congiunzione nella protagonista, vestita per quasi tutta l’interezza dell’opera con una tuta, la quale rimanda o ai due colori stessi o ad una sua possibile unione. Da questo punto di vista, le tute risultano essere una specie di divisa, di manifesto estetico di Miu.
Un comparto tecnico decisamente lodevole quindi, accompagnato da una colonna sonora un po’ monotona ma sempre in linea con il tono della serie. Ma se dal punto di vista pratico Copenhagen Cowboy non si discute, lo stesso non si può dire per l’impianto narrativo, in cui spesso l’incredibile dilatazione temporale degli eventi non riesce a trovare giustificazione soprattutto alla luce del format utilizzato, quello specifico delle serie televisive. Inoltre, la presenza di un finale piuttosto scialbo diventa qui simbolo di un’intera esperienza audiovisiva a tratti dimenticabile, ma che risulta comunque essere appagante all’interno di un catalogo Netflix sempre più omologato.