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Che Dio ci perdoni – la recensione del thriller di Sorogoyen

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Volti, strade inospitali, piazze gremite di persone e case in cui si muore soli. Uccisi. Con inganno, violenza, perversione. Il tutto nella totale mancanza di indignazione. Perché lo sdegno sociale è qualcosa che non ci può permettere. Perché di rabbia in giro ce n’è abbastanza. Polizia, chiesa e politica non possono aver perso tutte il controllo. “Che Dio ci perdoni” è un poliziesco antropologico in cui uomo, crimine e ambiente si compenetrano a tal punto da infettare l’aria e riscrivere la casualità degli eventi. Il perdono a cui si auspica nel titolo è ciò che resta ad un’umanità guasta, che non può far altro che condannare a sua volta chi è già del tutto perduto.

Energico, collerico, impulsivo. Ha movenze attraenti, un procedere narrativo pervaso d’intensità e il volto imbrattato di vita. È il cinema spagnolo degli ultimi decenni. L’umore nero e le danze d’odio di Álex de la Iglesia, la carnale mostruosità del reale di Jaume Balagurò, la policromia di contenuti con gli occhi aperti sull’orrore di Alejandro Amenábar. Da qualche tempo anche la voce cinematografica di Rodrigo Sorogoyen si è unita all’iberico coro. Il cinema spagnolo non è preda intrappolata nei circuiti festivalieri, ma bottino pregiato per raffinati appetiti cinefili di tutte le caste.

Non è per nulla facile trovare ospitalità presso distribuzioni che consentano di raggiungere il grande pubblico. Sono tante le produzioni che rimpiangeremo di non aver conosciuto, a discapito di altre che forse ci saremmo risparmiati. Eppure mentre altri decidono cosa valga la pena di esserci mostrato, vi consigliamo di posizionarvi sui cuscinoni della vostra poltrona e di godere di un po’ di buon vigoroso cinema spagnolo. Sulla piattaforma streaming di Amazon sono disponibili due imperdibili film di uno dei più interessanti nuovi autori europei. Il primo è un thriller politico, sporco e corrotto: “Il Regno” (2018), una storia con molto da raccontare sul populismo dilagante dei tempi recenti. Il secondo è “Che Dio ci perdoni”: una caccia al killer in cui Madrid, confusa e caotica, armata di uomini dalla rettitudine corrosa, arranca nell’agguantare il violento colpevole.

Due pellicole di genere che si muovono a passi decisi verso il cinema d’autore. Rodrigo Sorogoyen subisce la fascinazione del plot thriller americano, si lascia suggestionare dall’adrenalina filmica delle pellicole di Michael Mann, ma torna a fare i conti con la cultura spagnola, con l’afa di Madrid, con la politica torpida e la religione immobile e onnipresente.

Sorogoyen si serve del genere come dispositivo di comunicazione cinematografica: l’adrenalina del poliziesco e la potenza visiva del thriller hollywoodiano disarmano le ombre del sistema politico del suo paese e raccontano la frequentata solitudine del nostro tempo. Il suo è un narrare metropolitano, diretto, veloce come lo è l’incedere incessante del tempo. “Che Dio ci perdoni” è un thriller compatto, consacrato al noir americano ma autenticamente europeo.

Presentato al Festival internazionale del cinema di San Sebastián del 2016 dove si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura, “Che Dio ci perdoni” ha ottenuto sei candidature ai Premi Goya, vincendo in quella per il miglior attore protagonista, andato a Roberto Álamo (che interpreta il poliziotto Javier Alfaro). In Italia arrivò grazie a Movies Inspired che lo ha distribuito in homevideo. Ora la pellicola è disponibile in streaming su Amazon Prime Video.

Madrid – agosto 2011. La capitale spagnola si appresta ad essere inondata da fiumi di persone. Un milione e mezzo di pellegrini, provenienti da tutto il mondo, si riversano per le strade in attesa della visita di Papa Benedetto XVI. Il caldo è soffocante. Le piazze sono infuocate dalle proteste degli Indignados (Movimento 15M). Cittadini, studenti, disoccupati urlano la loro frustrazione, stretti in una morsa tra politici e banchieri. L’aria è quasi irrespirabile.

La polizia è distratta tra sicurezza e repressione. Quando un’anziana signora viene ritrovata senza vita sul pianerottolo di casa sono chiamati sul posto l’irascibile Javier Alfaro (Roberto Álamo) e l’ermetico Luis Velarde (Antonio de la Torre). I due ispettori si accorgono ben presto che non si tratta di un triste comune furto finito male. La donna è stata violenta prima di essere brutalmente scaraventata già dalle scale del palazzo.

Nel torrido caos di quei giorni gli agenti sono irritabili, rassicurati dall’arma che stringono tra le mani. Alcuni alleggeriscono la tensione facendo ironia sulla violenza che possono esercitare impunemente per le strade. Qualcuno sembra persino essere incline all’archiviazione facile. Non c’è tempo per indagare a fondo su ogni faccenda. È necessario passare alla questione successiva.

Ma Velarde è metodico, intuitivo. Deriso dai colleghi e poco apprezzato dalle donne per via della sua balbuzie non spreca fiato in altisonanti conversazioni o in machiste scaramucce fra colleghi. È il primo a ricucire gli indizi e ad accorgersi che sono diversi i casi in cui donne anziane sono state uccise con lo stesso efferato metodo.

Che Dio ci perdon

Eppure persino il suo collega Alfaro è scettico all’idea che possa trattarsi di un serial killer. Davvero hanno a che fare con un violentatore seriale di vecchiette, che ne conquista la fiducia, per poi abusarne sessualmente e ucciderle con violenza? Alfaro è il perfetto opposto del criptico Velarde. Ha famiglia, una certa propensione allo sproloquio, e la totale inabilità a contenersi. È manesco, rabbioso, irragionevole.

Il quadro dell’indagine fatica a divenire chiaro. Gli organi d’informazione non devono essere informati su quanto sta accadendo in città. I casi riconducibili allo stesso modus operandi si stanno facendo numerosi per non prendere sul serio l’ipotesi sempre più assennata dell’ispettore Velarde. Si tratta sicuramente di un omicida seriale, con evidenti problemi con la figura femminile matura. Qualcuno che ha un rapporto del tutto atipico con la madre. Ma come individuarlo in quel caos cittadino in cui anche i familiari della vittime preferiscono non ricevere in casa poliziotti, data la brutale repressione vista in strada?  

Luis Velarde e Javier Alfaro sono personaggi estremi, disfunzionali e solitari, ma perfettamente complementari. Entrambi rincorrono l’assassino con tenacia viscerale, eppure non sembrano motivati da una solida etica di giustizia. Velarde è riflessivo e silenzioso, ma anche spaventoso per via di tutte quelle offese soffocate nell’incomunicabilità. Ha straordinarie capacità di deduzione, ma si mostra impacciato in ogni altra questione. Avrà molto di cui affrancarsi nel corso di questa terribile storia, e non ci sarà dato modo di capire ogni sua mossa. Alfaro è impulsivo, folle, incontenibile. Ha la battuta pronta, è ironico, eppure sembra non riesca a risolvere i suoi problemi se non ricorrendo alla violenza.

Che Dio ci perdon

È suo il peso emotivo della narrazione. Tutto intorno a lui sembrerà precipitare, e tutto per la sola sfortunata casualità, aggravata dal suo pessimo carattere. Un personaggio intenso e disperato.

“Che Dio ci perdoni” è un film che merita di essere visto anche per le grandi prove attoriali. Antonio de la Torre (“La Comunidad“, “La vendetta di un uomo tranquillo”, “Il Regno”) interpreta il suo taciturno ispettore con misura, interiorizzando turbamenti ed emozioni. Perfetto nel ritrarre una società vaporizzata, implosa, refrattaria al senso di comunità. Roberto Álamo (“La gran familia española”) fa un magnifico lavoro con il carico di rabbia del suo Alfaro, restituendoci l’unico avanzo d’umanità che per quanto violenta e vessata sa ancora versare lacrime.

La letteratura di genere vorrebbe che a risaltare fosse l’intreccio, che fosse l’indagine il motore narrativo di una pellicola esplicitamente poliziesca. In “Che Dio ci perdoni” al contrario è il disordine sociale a travolgere ogni cosa. Non è un caso che il killer uccida nel centro di Madrid. L’assassino colpisce al cuore, lì dove sa essere letale, e indisturbato. Dove tutti indaffarati sembrano intrappolati nella propria solitudine, dove le sue vittime restano isolate, mentre i famigliari vivono nelle placide periferie.

“Che Dio ci perdoni” è un giallo votato a far emergere il fabbricato sociale, che in questa caotica e zittita caccia all’uomo gioca un ruolo da vero protagonista. Sono molte le pedine sacrificabili da muovere sulla scacchiera, e numerose le sottotrame di vicende che, non solo aiutano a contestualizzare il periodo in cui l’indagine si svolge, ma finiscono per essere il motivo per le quali l’investigazione avrà quei risultati.

Che Dio ci perdon

Una struttura che fa tornare alla memoria Memories of Murder di Bong Joon-ho. Le indagini in entrambi i film procedono a fatica, bloccate dal caso, dall’inefficacia degli uomini messi in campo, da autorità intimorite dall’opinione pubblica. Il fascino urbano della capitale spagnola è mostrato in tutta la sua calda essenza indigena e frenetica. La città è percorsa da personaggi reali, che si fanno largo tra la folla nel tentativo di domare una confusione emotiva che trova piena corrispondenza nel caos cittadino.

In “Che Dio ci perdoni” un elemento fondamentale per comprendere l’interiorità dei suoi personaggi principali – uomini che non sembrano essere affatto capaci di tradurre il loro turbamento in parole – è il clima. Il caldo torrido in cui tutto ha inizio li vede inquieti, disorganizzati ma coinvolti, rabbiosi e sconvolti dagli eventi. L’estate lascerà spazio a temperature più miti nel corso della narrazione. E il finale vedrà scendere una pioggia torrenziale, come a voler indicare che la passione ha ceduto il passo alla fredda contemplazione del castigo.

Rodrigo Sorogoyen scolpisce la Spagna in ogni fotogramma di questo film. Molti luoghi della capitale iberica sono riconoscibili, ma non si tratta solo di un’attenta riproduzione dello spazio metropolitano. C’è anche l’irruenza disperata di Alfaro, comune ai personaggi estremi e intensi di molta narrativa cinematografica spagnola; e c’è quella tradizione religiosa così presente, così granitica, da aver forgiato mentalità immobili. I personaggi di “Che Dio ci perdoni” soffrono l’incapacità di reagire, e agiscono tutti in una condizione permanente di dissimulazione. Alcuni di loro contrastano la propria frustrazione con l’ira, altri con un aggressivo silenzio, altri con l’omicidio.

“Che Dio ci perdoni” è un thriller cupo, accanito, senza pietà.

Non ci sono eroi da contrappore al male assoluto. Solo uomini arrabbiati, che cadono a terra se spintonati dallo sconforto. Uomini violenti, che rispondo all’umiliazione con brutalità, non perché protetti dall’istituzione che rappresentano, ma perché presi a calci anche da quella. Uomini che non riescono a sentirsi rassicurati nemmeno per un momento dalla preghiera implorata nel titolo. Il perdono è una supplica che non hanno nemmeno il coraggio di invocare.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Che Dio ci perdoni" è un thriller cupo, spietato, violento. Madrid, indigena e affollata, è la protagonista indiscussa di un'indagine di polizia che procede a stento a causa dell'incursione delle istituzioni che non vogliono lasciar trapelare la notizia di un perverso e brutale serial killer in circolazione. Rodrigo Sorogoyen realizza una pellicola in cui il tessuto urbano si intreccia alla perfezione con una narrazione cinematografica palpitante, viva e disperata. Un thriller da vedere, anche per la bravura dei suoi interpreti.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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