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Barriere, il blues infinito degli afroamericani

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Per raccontare la condizione degli afroamericani e la progressione dei loro diritti a livello cinematografico si sceglie quasi sempre il ventennio ’50-’70, quello che ha apportato le maggiori migliorie alla popolazione nera degli Stati Uniti. Se anche un regista black come Spike Lee ha scelto più volte nel corso della sua carriera di raccontare questo periodo, allora significa che la scelta è sicura, e garantisce quantomeno un forte interesse tra il pubblico e la critica. Così anche un divo di Hollywood come Denzel Washington ha deciso nel 2016 di portare sullo schermo Fences ovvero Barriere, dramma scritto nel 1983 dall’indimenticato drammaturgo di colore August Wilson, premio Pulitzer per la drammaturgia. La scelta, per quanto curiosa, è stata dettata anche dal successo che lo stesso Washington ha ottenuto con la pièce a teatro, nel 2010, che gli è valso anche un Tony Award.

Barriere, il blues infinito degli afroamericani

La vicenda di Barriere vede come protagonista Troy Maxson, ex promessa del baseball che vive nella Pittsburgh degli anni ’50 ed è costretto a fare il netturbino per provvedere alla sua numerosa famiglia: la seconda moglie Rose, il figlio Cory, il figlio di primo letto Lyons e il fratello Gabe, reso invalido dalla guerra. La vita secondo Troy è un eterno faticare per arrivare al venerdì, il giorno di paga, e godersi finalmente due giorni di respiro da tutto. Ne risulta così un’indole profondamente pragmatica che non lascia molto spazio ai sogni, nemmeno a quelli dei figli. E’ inevitabile per tanto che Troy si trovi spesso a litigare con entrambi i figli: il più grande ha trentaquattro anni ma rifiuta di trovarsi un lavoro serio perché vuole diventare un musicista professionista, mentre Cory, adolescente, vorrebbe intraprendere una carriera nel football. Se Rose lascia che i ragazzi abbiano delle ambizioni Troy non accetta nessun tipo di discorso di questo tipo, e insiste affinché Cory si dia da fare a casa, aiutandolo in molti lavori tra cui la costruzione dello steccato che Rose vorrebbe erigere intorno all’orto. La già fragile stabilità familiare viene rotta dallo stesso Troy, che mette incinta un’altra donna e si sente in dovere di rivelare la cosa a Rose. Il risultato è un prodotto fortemente drammatico in cui viene dato il maggior risalto proprio al protagonista maschile, che non a caso domina lo schermo praticamente fino all’epilogo.

Barriere, il blues infinito degli afroamericani

Ma Barriere non è solo il racconto di una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, ma si configura come un vero e proprio affresco della minoranza nera urbana degli anni ’50. Una minoranza che giganteggia e diventa assoluta protagonista, tanto che non si vedono personaggi bianchi per tutto il corso della pellicola. E’ come se Wilson prima e Washington poi dicessero allo spettatore che la vera America di quegli anni non va ricercata nei quartieri borghesi e benestanti dei bianchi (per capirci, quelli in cui Troy raccoglie la spazzatura), ma nell’universo nero dei lavoratori indefessi, che ambiscono solo ad un po’ di serenità. Il tutto senza fare alcun grande riferimento ai fatti d’attualità. Le uniche due immagini “politiche” che si vedono all’interno di Barriere sono i poster di JFK e di Martin Luther King che Rose ha appeso in cucina, e su cui per un attimo la macchina da presa del regista si sofferma. Il cuore pulsante di quegli anni non va ricercato nei grandi protagonisti della storia, ma nella famiglia Maxson, archetipo dell’autentica società postbellica. Anche di fronte al progressismo dilagante in quel periodo, Troy appare come una voce fuori dal coro. Può essere definito un “privatista”, nel senso che quello che davvero gli preme non è essere al passo con i tempi, ma far sempre valere le sue convinzioni, che per lui sono inviolabili come la Bibbia. Indicativa in questo senso è la scena del diverbio con Cory riguardo alla TV. Al ragazzo che preme per comprare un televisore per la modica cifra di duecento dollari, il padre risponde che con la stessa cifra si può acquistare qualcosa di più utile, come ad esempio un tetto nuovo, e che avrebbe aggiunto quell’elettrodomestico alla lista della spesa solo quando avesse avuto duecento dollari in più.

Insomma il personaggio di Troy appare come un osso duro, ancorato alle sue idee e testardo nel portarle avanti, anche in un mondo dove esse cominciano a sembrare quanto meno superate. A colpire nel segno è soprattutto la dedizione al lavoro e alla famiglia da parte del protagonista. Tutto quello che Troy fa è dettato da uno spiccato senso di dovere e di responsabilità, che l’uomo persegue fino all’esagerazione. Arriva persino a dire a Cory che non c’è nessuna legge che impone che a un padre debba piacere il proprio figlio, e che quello che fa per lui lo fa perché è una sua responsabilità e un suo dovere, esattamente come è dovere del suo capo dargli la paga ogni venerdì. Proprio per questo l’esistenza del protagonista è dettata da ideali virtuosi ma estremamente semplici. Eccezionale è dunque la scelta di Denzel Washington di rendere essenziale la messa in scena di tutta la pellicola. Si dà una maggiore importanza ai dialoghi rispetto all’aspetto visivo, in cui prevale quasi sempre il campo medio o addirittura il campo totale, in netta assonanza con la provenienza teatrale della sceneggiatura. A contare non sono le immagini, ma i concetti che vengono esplicitati a parole per tutto il film. Concetti che vedono nella famiglia Maxson il mezzo per parlare più in generale della condizione che tutti i cittadini afroamericani vivevano in quell’epoca. L’opera diventa in tal modo una sorta di blues collettivo, inteso non semplicemente come lamento della popolazione di colore, ma come indescrivibile ambizione di veder posta finalmente la lente d’ingrandimento su quell’enorme frangia della società fino a quel momento bistrattata e discriminata. E’ un definitivo coro per far sentire a tutti la voce nera. Non è quindi un caso che la canzone ricorrente nel film, cantata prima da Troy e poi da Cory e Raynell, la bambina nata dal tradimento di Troy, veda protagonista un cane di nome Blue. Barriere è quanto più di vicino al blues si possa trovare al cinema.

Non si può infine non parlare dello splendido cast che Washington ha raggruppato per la realizzazione del suo progetto. In generale il corpo attoriale sembra completo e perfettamente affiatato per tutto il corso della pellicola, anche nelle parti minori. Una doverosa menzione d’onore va tributata senza dubbio a Viola Davis, premio Oscar alla miglior attrice non protagonista proprio per la resa cinematografica del ruolo di Rose. Donna complessa e autoritaria, è l’unica in grado di far ragionare Troy quando perde la bussola nel labirinto delle sue convinzioni, e si dimostra di nobilissimo animo quando accetta di allevare come fosse sua figlia Raynell, nata dal tradimento del marito e orfana della madre morta di parto. L’interpretazione della Davis rasenta la perfezione e sancisce la definitiva consacrazione di una delle più complete attrici dello star system hollywoodiano. In Barriere Viola riesce a dire tutto con un solo sguardo o un solo movimento delle mani, e diventa eccezionale nella scena in cui Troy le annuncia il tradimento, quando esplode in un pianto nervoso e recita il monologo più bello del film. Rose incarna il vero messaggio della pellicola, riassunto dalla massima che ricorre in più scene: “C’è chi costruisce barriere per tenere lontane le persone, e chi per tenersele vicine”. Ecco che allora la nozione di barriera, di per sé negativa, assume un significato totalmente nuovo proprio in virtù del comportamento della donna, vera protettrice della stabilità familiare.

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Davide Pirovano
Davide Pirovano
Mi piacciono le arti visive contemporanee e mi piace pensarle in un’ottica unificatrice. Non so mai scegliere, ma prediligo le immagini e storie di Gaspar Noé, David Fincher, Yorgos Lanthimos e Xavier Dolan.
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