Vortex è ad oggi l’ultima pellicola realizzata da Gaspar Noé, grande maestro della provocazione in chiave filmica nel panorama della produzione cinematografica contemporanea. Dopo I successi degli esordi e gli ampiamente dibattuti azzardi costituiti da Love (2015), Climax (2018) e Lux æterna (2019), il regista e autore si dedica tra il 2020 e il 2021 alla realizzazione di un prodotto atipico – dal punto di vista prettamente narrativo – rispetto al contesto del suo corpus filmografico. Il lungometraggio, un calibrato e complesso dramma psicologico, si distacca dai due film precedenti del medesimo autore anche in termini di durata, in ragione dei suoi 142’. Protagonisti della pellicola, in veste di coniugi, gli iconici Dario Argento e Françoise Lebrun, affiancati da Alex Lutz.
La trama del film
Una coppia di anziani coniugi vive a Parigi. Lui (Dario Argento) è un critico alle prese con la stesura di un saggio che investighi e approfondisca il rapporto fra il cinema e i sogni, mentre lei (Françoise Lebrun) è una terapista ormai in pensione. Il loro è un presente fatto di abitudinaria routine: ritmi mattutini serrati e definiti, visite in farmacia o al supermercato, chiacchiere e telefonate agli amici, o ai colleghi di un tempo. Sul rapporto che intercorre tra i due, tuttavia, cala presto un’ombra che è difficile non prendere in considerazione, quella costituita dalla demenza senile della donna, che sembra peggiorare drasticamente di giorno in giorno.
In difficoltà nel capire il da farsi, dopo plurime parentesi di spavento causate dalla condizione della moglie l’uomo decide di scomodare il figlio (Alex Lutz), affinché lo aiuti a comprendere quale strada sia opportuno percorrere. Sul figlio stesso, tuttavia, grava già un presente complesso, incorniciato da assistenti sociali, amorevolezza nei confronti del figlio Kiki e dipendenza da droghe. Fatta eccezione per alcune rare parentesi di lucidità, la demenza della donna peggiora sensibilmente con il passare dei giorni, e mentre i due uomini che abitano la sua vita tentano di capire come sia meglio comportarsi sarà proprio lei, suo malgrado, a rischiare di mettere a repentaglio le loro esistenze con comportamenti sconsiderati dettati dal suo stato di salute mentale.
Vortex: una tecnica personale e ben strutturata a servizio di una narrazione sofferta
Per quanto narrativamente atipico rispetto alla restante parte delle sue opere, il lungometraggio si rivela capacissimo di lasciar trapelare l’autorialità e lo stampo estetico del suo regista: in breve, Vortex è senza dubbio alcuno un film di Gaspar Noé, poiché da ogni elemento che lo compone emerge quella che grazie alle pellicole precedenti ci ha insegnato essere la sua visione filmica o, più propriamente, creativa in senso assoluto. Visione creativa che, certamente, si riscontra più marcatamente nelle scelte – audaci e personalissime – effettuate a livello registico, ma che si ritrova anche in tutta una serie di orpelli estetico-visivi. Banalmente, già la grafica dei titoli di testa, speculare alla maggioranza delle precedenti opere di Noé, grida il suo nome, come a voler rendere chiaro sin dal primo istante la matrice autoriale (ormai ben nota) di cui il film si rivelerà figlio.
A partire dalla scena d’apertura, salta immediatamente all’occhio il calibro dei due interpreti protagonisti, Françoise Lebrun e Dario Argento (lei lodatissima interprete della tradizione filmica francese, lui maestro del giallo nostrano che non necessita di presentazione alcuna). Entrambi, sorprendentemente lontani dalla loro zona di comfort, si risolvono in interpretazioni spiccatamente riuscite, credibili e coinvolgenti nel vestire i panni di una coppia logora, scissa e insieme compatta, nonostante la consunzione causata dal tempo. I riferimenti narrativi riportano inevitabilmente – fra i tanti riferimenti possibili – al non troppo remoto Amour di Michael Haneke, che a sua volta trovava i suoi protagonisti in due coniugi che vedevano il proprio rapporto costretto a sgretolarsi di fronte alla demenza senile. Per quanto la gravosità legata all’elemento tematico permanga in entrambi i casi, è tuttavia evidente come le due pellicole differiscano tanto per tecnica quanto per accezioni e implicazioni.
A differenza della pulizia stilistica (comunque a suo modo elaboratissima e marcatamente complessa) di Haneke, Noé instaura un impianto registico che richiede a gran voce allo spettatore di essere notato. Altro protagonista indiscusso di Vortex infatti – forse in egual misura rispetto ai personaggi di Lebrun e Argento – è la tecnica con cui il film stesso è stato realizzato. Tecnica che traspare immediatamente grazie all’uso di un formato desueto – il formato medio – già a partire dalla prima scena e poi per tutta la durata del film. Un inizio che è insieme dichiarazione d’intenti e apertura accattivante, che pone il pubblico di fronte ad uno stile non canonico sin dal minuto iniziale (come già accadeva, ad esempio, in Climax).
Alto elemento preponderante già dalla scena d’apertura (e che perdurerà poi, per l’interezza del lungometraggio) è la cura auto-imposta nella scelta dei campi e dei piani, che assieme alla precisione dimostrata dal millimetrico montaggio per l’intero minutaggio del film testimoniano un labor limae accortissimo, attribuibile all’occhio registico-autoriale. Altro indice di tale intelligenza dietro all’uso della macchina da presa è il ricorso, in alcuni segmenti, alla più che giustificata tecnica del piano-sequenza che, lungi dal risultare un mero orpello registico, si rivela più che utile anche a livello narrativo: facendo gravare sullo spettatore ogni sofferto attimo dei due protagonisti in alcune scene chiave, senza sacrificare neppure un istante evitando aprioristicamente il montaggio, la totalità narrativa appare esponenzialmente straziante.
Ciò che però emerge maggiormente, a livello assoluto, dalla regia di Noé è l’uso che questi fa della tecnica dello split screen. Quello di Vortex è, in effetti, uno split screen totalizzante e significativo, insieme esplorativo e soffocante, deciso a permanere per la quasi totalità del minutaggio. Tale scelta, ben lungi dal rivelarsi una mera velleità stilistica, si erge a specificità intrisa di senso, poiché dimostra di essere sul piano visivo – rendendo il concetto immediatamente percepibile e comprensibile – la trasposizione di due vite forzatamente unite (sia narrativamente che dall’inquadratura) ma in realtà intrinsecamente separate per loro natura. Orpello registico tanto significativo e significante che, al momento in cui lo split screen si fa mancante di una sua metà, lascia trasudare in modo profondissimo e deliberato la propria incompletezza, creando una coesione significativa tra il senso della pellicola e le modalità realizzative della stessa.
In definitiva, con Vortex Noé si distacca a livello tematico dagli eccessi e dalle provocazioni che lo hanno reso celebre, optando per una narrazione riflessiva e a tratti lirica, per quanto comunque assolutamente cruda e viscerale. Sul piano stilistico, tuttavia, il regista (e autore) si mantiene ben saldo a determinati elementi tecnici che storicamente gli sono propri, definendo in modo ancor più preciso la sua identità creativa, e al contempo ne adotta di ulteriori, scegliendoli con criterio e determinando così una pellicola densa, sofferta, calibrata, ben ideata e assolutamente efficace.