Vivere è stato presentato fuori concorso alla settantaseiesima mostra del cinema di Venezia. Avrebbe potuto competere con tanti altri rivali scenici, dato un cast e un impianto narrativo leggero ma a tratti pungente.
La regia si dimostra puntuale nel descrivere una storia di formazione familiare che ha un sapore nostalgico netto e ben definito. Il film entra nella programmazione Sky con grazia; nessuna attesa particolarmente spasmodica per quello che è un prodotto di fatto poco pubblicizzato. Il risultato è tuttavia apprezzabile. Francesca Archibugi dirige con maestria e saggezza un contenuto che dire emotivo è dire poco.
Si diceva della formazione. Vivere è tratto da un racconto, Viaggio in Italia, scritto dalla regista stessa. Parte proprio dalle esperienze comunitarie di una serie di persone le cui vicissitudini dell’uno sono necessariamente legate all’altro. E da questo non si può scappare, bensì solo apprendere.
Condivide con Il Colibrì (altra opera diretta dall’Archibugi) il grande merito di saper dipingere su schermo la potenza delle coincidenze, quegli eventi che anche vissuti una volta sola possono cambiare il corso di una vita. Palpabile poi la volontà di passare in rassegna i sentimenti umani nella loro accezione assoluta (non ci sono sé, non ci sono ma).
Il cast è poi un grande punto di riferimento per quest’opera. La coralità dona al tutto un valore aggiuntivo e la performance attoriale riesce a far capire allo spettatore cosa voglia dire “essere in balìa degli eventi”.
Vivere incarna il concetto stesso di rimanere scottati dalla vita. Certi avvenimenti tagliano la parabola cronologica dell’esistenza come un coltello nel burro. Noncuranti dei sentimenti, caso e fatalità non risparmiano nessuno.
Nonostante tutto però si va avanti e si mette in scena quella che è la piece teatrale più naturale in assoluto per l’essere umano: vivere, per l’appunto.
Vivere – Una storia di formazione familiare
Vivere tratta le vicende della famiglia Attorre. Una famiglia poco numerosa ma che cela diversi segreti nascosti. Susi (interpretata da Micaela Ramazzotti) insegna ginnastica alle donne sovrappeso. Non riesce a stare dietro alla figlia, malata d’asma. La sua sbadataggine, unita a un senso compiuto di stress ansiogeno, non le permette di dare il massimo, nonostante gli sforzi.
Luca (un Adriano Giannini da applausi) è un padre poco presente. Non nell’accezione fisica del termine, bensì in quella mentale. Gli sforzi fatti per fare carriera non serviti a niente. Si ritrova come free lance in una testata che non sembra apprezzarlo molto. Lasciano per lui soltanto gli articoli di margine, quelli che una prima pagina se la sognano.
In Vivere le giornate della famiglia Attorre sono scandite da litigi, incomprensioni e sfide quotidiane per la sopravvivenza. Più che monetaria, forse, mentale. L’arrivo di una ragazza alla pari (Mary Ann) che hanno assunto per guardare la figlia, scombussolerà i piani mettendo alla luce rischiose verità.
Il percorso di crescita del nucleo familiare passa attraverso la sua figura, un perno di avveduta saggezza. La sua fede la guida nelle scelte. Per questo si presenta come una ragazza solida e dai principi incorruttibili.
Razionalità contro passione
Vivere pone in discussione proprio le scelte dell’uomo. Archibugi cerca di far arrivare allo spettatore la classica dicotomia tra disegno divino e libero arbitrio umano. Probabilmente il punto d’unione tra le due spinte è il fatto che la nostra propria natura non può essere cambiata.
Siamo chi siamo. Pertanto, le nostre esperienze saranno necessariamente permeate dal nostro carattere e dalla nostra anima. A volte interviene però un elemento esterno a fare da ago della bilancia, a sistemare tutte le cose che devono essere sistemate. Qui si può parlare di provvidenza.
Mary Ann rappresenta l’influenza che un’entità esterna può avere su un certo contesto umano. Può ispirare, insegnare o cambiare. L’importante è che si presti ascolto a questa figura.
Ci sono delle persone, infatti, che non si scordano mai. Il perché è da ricercarsi nell’influsso emotivo che esse generano. Nello specifico, hanno il potere di farci sentire come non ci siamo mai sentiti e si ha la netta sensazione che così non ci sentiremo mai più.
Vivere, attraverso l’esperienza degli Attorre con Mary Ann, cerca di trasmettere a chi guarda la percezione del fatto che alcune persone sono sì destinate ad andarsene (improvvisamente come si sono palesate) ma il loro odore ci resta addosso. Il ricordo permea ogni altra esperienza di vita.
Susi e Luca sono i rispettivi metri di paragone reciproco per tutte le relazioni che hanno avuto prima di essersi conosciuti. Sono la ragione reciproca del successo e dell’infelicità. La riflessione che viene da fare è: nella vita siamo destinati a un’unica persona? La risposta è ovviamente no.
Una vita può durare tanto (anche se non è così scontato). Pertanto, l’uomo è portato per natura ad andare avanti e a rimettersi in gioco. C’è tuttavia quella congiuntura che non tornerà più. Quella persona che è capace di farci capire all’istante quale sia il nostro posto nel mondo. E il tutto accade da giovani.
Più si è giovani più si è capaci di far ardere quella fiamma che si ha dentro. Fatta di passioni, spinte e desideri. Più va avanti la vita e più le persone intorno a noi perdono il potere di plasmarci e noi la voglia di esserlo a nostra volta.
Vivere insegna quindi che pur andando avanti, l’uomo rimane attaccato all’idea che si era fatto di sé stesso nei momenti in cui era felice. Gli anni della gioventù sono anni in cui la ragione non ha modo d’esistere. La razionalità lascia il passo al pathos, alla voglia, al bisogno.
Chiudere una porta a volte è però necessario. Non si può rimanere ancorati a un’idea. La capacità di affrontare le problematiche dell’esistenza cesserebbe se questo si dovesse costantemente verificare.
Ecco perché la scelta di Mary Ann: un elemento a tratti distruttore, che riporta i protagonisti ai fasti della gioventù. Dall’altro è anche colei grazie alla quale la famiglia Attorre si ricongiungerà, andando avanti in quella grande maratona che è la vita.