Il Tramonto di un’idea, di una contrapposizione ideologica inserita in un contesto familiare che pare uscito da un classico di Shakespeare e che invece è frutto di una storia originale, seppur contestualizzata in un periodo storico ben preciso, ossia gli anni appena precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. E se ne Il figlio di Saul (2015), sua folgorante opera prima vincitrice dell’Oscar e del Golden Globe come miglior film straniero, l’ungherese László Nemes ci aveva trascinato nell’inferno di un campo di concentramento del secondo conflitto globale, qui sceglie un approccio tipico dei period-drama in costume per raccontare una vicenda ricca di spunti e sfumature, declinante nello scorrere delle abbondanti due ore di visione su più tematiche e sottotrame secondarie che hanno però tutte a che fare con la protagonista, comparente in ogni singola scena del racconto del quale è il cuore pulsante e il centro focale degli eventi. Parliamo della giovane e bella Írisz Leiter, arrivata nella natia Budapest nel 1913 per andare a lavorare nella cappelleria che apparteneva ai suoi genitori, morti in tragiche circostanze e il cui nome non è benvoluto dalla popolazione locale. La ragazza vorrebbe essere assunta nel negozio ma il nuovo proprietario, il signor Brill, le nega il posto e le consiglia di far ritorno a Trieste, dove ormai viveva da anni. Prima della forzata partenza Irisz scopre però l’esistenza di un fratello mai conosciuto, anch’esso legato ad un tragico fatto di sangue risalente a qualche tempo prima: il consanguineo, ricercato dalle autorità, si nasconde ora chissà dove nei bassifondi della città e la sua ricerca diventa una vera e propria ossessione per la protagonista.
Un’anima mystery permeata da quell’eleganza affine alle migliori produzioni in costume, il tutto filtrato attraverso l’occhio d’autore del cineasta. Cineasta che è un ex “allievo” del collega Béla Tarr, autore osannato dagli appassionati del cinema d’essai, e che ha preso ben più di un’ispirazione dal suo mentore per consolidare il proprio stile, a cominciare già dai lunghissimi piani sequenza che legano i fili principali della storia. La camera pedina da ogni angolo, con una predilezione per inquadrature frontali o da dietro, la tormentata Irisz e accompagna il pubblico stesso nel viaggio alla scoperta della verità, il tutto in una progressione narrativa che svela le proprie carte con i giusti tempi e modi, dando modo di crescere anche alle figure secondarie e al contesto sociale in atto, sempre più caotico e tormentato. Il Tramonto del titolo non è casuale e solo metaforico per quando accade in fase di sceneggiatura, ma si rivela anche mezzo estetico nelle luci che entrano dalle finestre e illuminano con quei colori melanconici il mood emotivo della relativa situazione in atto. La fotografia stessa utilizza sfocamenti in più occasioni per caratterizzare i vari livelli del “palcoscenico”, con i primi piani spesso dominanti le splendide ambientazioni d’epoca.
La musica, con le note del violino che viaggiano sospese e si rivelano ideale accompagnamento delle tribolazioni di questa giovane donna indagatrice, è un altro elemento cardine della suggestiva messa in scena e aggiunge ulteriore fascino ad un impatto estetico e visivo già di per sé a livelli d’eccellenza, con la costruzione delle scene che guarda alla geometria di un dipinto in divenire. Non mancano sequenze crude e sofferte, più dal punto di vista psicologico che fisico (gli spargimenti di sangue, pur presenti, vengono lasciati in gran parte fuori campo): una quando la Nostra viene accerchiata da un gruppo di uomini e si teme il peggio, con il senso di incalzante terrore amplificato dal particolare stile registico, e l’altra in uno dei passaggi finali dove il caos imperante e selvaggio può ricordare alla mente quello magnifico de Le armonie di Werckmeister (2000), capolavoro del sopraccitato Tarr.
Ma in Tramonto emergono anche influenze da Antonioni per come si consolidano o meno i rapporti tra le varie figure coinvolte, tutte pedine di un gioco crudo e crudele procedente verso risvolti sempre inaspettati, fino ad un prologo dove un semplice sguardo rivolto verso il pubblico è capace di esprimere più di mille parole. In questo gran merito va alla performance totalizzante di Juli Jakab, al suo primo ruolo da protagonista, e capace di unire ad un’eterea bellezza un carattere fragile e ferreo al contempo.
Voto Autore: [usr 4,0]