Cappotti, foschia, numerosi sbattiti di ciglia e un martello. Può la tempra di un thriller psicologico essere sintetizzata in così poco? Stando a quanto insegna “The Undoing” parrebbe proprio così.
Tratto dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz, la miniserie HBO è apparecchiata per benino su Sky on demand, interamente disponibile a partire dall’8 gennaio, pronta a soddisfare il vostro voyeuristico piacere di infilarvi ben dentro i fattacci familiari di due come Nicole Kidman e Hugh Grant.
Con due belle facce così difficile non avere grandiose aspettative. E se si considera che “The Undoing” è diretta dal premio Oscar Susanne Bier (vinto nel 2011 per “In un mondo migliore”), regista molto apprezzata anche sul piccolo schermo per la serie pluripremiata “The Night Manager”, la sua visione diviene una di quelle telefonate che vale la pena attendere impazienti accanto al ricevitore.
Nel caso in cui faccioni hollywoodiani e medaglie al talento non fossero sufficienti ad impressionarvi sappiate che la penna alle prese con la sceneggiatura è quella di David E. Kelley. Il creatore di quell’irriverente mondo avvocatesco di Ally McBeal e della litigiosa compagine di madri facoltose di Monterey, l’adorata miniserie “Big Little Lies”.
E con quest’ultima “The Undoing” sembra avere molto in comune. Tornano l’eleganza e i tormentati silenzi di Nicole Kidman, riappare una scuola riservata a pochi studenti, i pochi che possono permettersi la costosissima retta, e ricompare una cerchia di amiche esclusive, con la puzza sotto al naso, ovvero le madri della prole altolocata a cui il mondo appartiene per diritto di nascita. Unica sfortunata divergenza con il contesto d “Big Little Lies” è che le altre attrici se ne sono rimaste a casa. In “The Undoing” c’è solo lei, la Kidman, inflessibile con le intimidazioni della vita quanto con le proprie debolezze, come spesso sono i suoi personaggi.
Al centro di un’imperturbabile New York, nel sontuoso Upper East Side, in un appartamento perfetto, fra mobili di legno scuro e opere d’arte, vivono Grace (Kidman) e Jonathan Fraser (Grant). Lei è una terapista di successo che accoglie confessioni e inquietudini dei pazienti con misurata generosità. Una predisposizione professionale impeccabile. Lui è un oncologo infantile, di gran fama e gran cuore. Disponibile, divertente, empatico. Il medico che tutti vorrebbero per il proprio figlio, il marito che ogni donna vorrebbe accanto.
Le loro giornate scorrono tra i loro riconoscenti ambienti lavorativi, il loro soddisfatto focolare domestico, e le eleganti serate di beneficienza indette dall’elitaria scuola del figlio Henry, giovanotto che, come si immagina, è ben educato e piuttosto sveglio per la sua età. A queste esibizioni di sfarzo i due partecipano, insieme, uniti, complici. Con la detestabile superiorità di chi a quel mondo intende appartenere esentandosi dalle celebrazioni della propria agiatezza. Tutto di loro sembra dire: siamo sposati e ricchi da far schifo, siamo entrambi professionalmente appagati e siamo felici. Senza il bisogno di esibire, arrancare o tradire. Siamo maledettamente felici.
Grace trova persino il tempo per un comitato benefico organizzato dalla scuola privata del figlio. Qui incontra altre danarose e boriose madri, e si imbatte in Elena Alves (Matilda De Angelis). Il figlio Miguel può frequentare l’élite solo grazie ad una borsa di studio, per questo lei è così diversa? Nonostante tutto tradisca la sua estraneità a quel mondo lei sembra molto determinata ad entrarvi. È dichiaratamente sensuale, sfrontata e allatta la figlia nel bel mezzo di un incontro con le altre madri, scatenando una taciuta ma vigorosa indignazione della morale materna dell’Upper East Side.
Ma Grace è impermeabile agli sconvolgimenti, abituata per professione a non lasciarsi turbare dalle richieste di attenzione. Eppure l’indiscreta seduzione che Elena dispensa tutt’intorno a sé non la lascia indifferente. Perché il suo sguardo languido è inciso nei suoi pensieri?
Quando un martello fracassa il cranio della bella e sconveniente Elena colpendola per ben undici volte, Grace avrà modo di capire perché quella donna sembrava avere molto da dirle.
Con perfetto sincronismo il premuroso marito Jonathan scompare nel nulla senza lasciare traccia. La fuga spesso coincide con un’ammissione di colpa. Ma può il compagno di una vita, un medico che salva i bambini dal cancro, avere qualcosa a che fare con una giovane donna con il cranio spaccato a martellate? Se si scoprisse che i due avevano una relazione e che la donna lo aveva addirittura fatto licenziare dall’ospedale presso cui prestava servizio pur di legarlo a sé, il quadro apparirebbe più chiaro?
Un continuo gioco tra ciò che confessano e quello che scelgono di non rivelare, gli occhi di Nicole Kidman e Hugh Grant si fanno ambigui, impauriti o ingannevoli. A noi il compito di decifrarne il contenuto: Jonathan è davvero colpevole o è solo il perfetto indiziato senza alibi ma con un ottimo movente? E Grace perché diavolo si ostina a stargli accanto nonostante le bugie e il tradimento?
L’incombenza di scovare l’assassino dovrebbe tenerci impegnati per un po’, dovrebbe farci lavorare di spirito d’osservazione e intuito. E in effetti lo spettatore viene arruolato fin da subito al fine di districare la matassa. Ma perlopiù la nostra vivacità deduttiva sarà brutalmente sprecata. Noi lì a chiederci se la pacata Grace non sarebbe forse una sospettata più qualificata del fascinoso marito; a dubitare di tutto e tutti, persino del figlio dodicenne della coppia, tanta la voglia di trovare una soluzione non banale al fattaccio sanguinoso. Ma niente. La verità era sotto i nostri occhi, e già tutto ci era stato spiegato.
È solo una questione di aspettative che dovremmo stroncare sul nascere affinché non siano crudelmente deluse o “The Undoing” è stato costruito per condurci altrove, disinteressandosi del gioco di svelamento che si instaura con il pubblico?
Sarebbe stato molto interessante se fosse stato così. Se la serie non ci avesse sfidato ad intravedere ulteriori potenziali colpevoli, se le valide alternative non si fossero dipanate dinnanzi ai nostri occhi con cotanta plausibilità. Sarebbe stato notevole indagare i personaggi senza essere disturbati da un giallo prevedibile. Se la serie avesse concesso il giusto spazio al divario di ricchezza che tiene a debita distanza gli Alves dai Fraser, non fosse per quella torrida relazione segreta, la narrazione avrebbe goduto di un maggior spessore.
Se così fosse stato saremmo stati più clementi nel perdonare il momento dell’intervista davanti alle telecamere al perfetto colpevole, che richiama troppo da vicino il seducente (quello sì) thriller matrimoniale di Fincher “Gone Girl”. E forse avremmo soprasseduto anche al fatto che la perspicace avvocatessa, tanto somigliante a Annalise Keating de “Le regole del delitto perfetto” per modi e lucidità, si faccia fregare, alle ultime battute del processo milionario, da un testimone che noi non avremmo fatto deporre nemmeno sotto minaccia.
Sono queste le crepe di una narrazione che avrebbe potuto essere di più, ma non è stata. Eppure c’è tanto di bello. C’è soprattutto Hugh Grant. Non più romantico, impacciato e scanzonato, ma narcisista e manipolatore. La sua interpretazione, tra sorrisi ingannevoli e commozione fintamente trattenuta, è riuscitissima.
Ci sono poi le case. Quegli interni eleganti, perfetti, da rivista di design patinata, sporcati (poco), quasi per sbaglio, dalla vita familiare dei suoi ricchissimi abitanti. La dimora cittadina dell’invidiabile coppia si trova sulla Fifth Avenue di Manhattan a pochi isolati da Central Park. Ben più accogliente delle solite abitazioni da ricconi: la cucina con mattoni a vista, la scala in legno scuro, i toni caldi, tutto sembra dire che lì c’è calore e famiglia. O quello che si crede tale.
Il superattico che affaccia direttamente Central Park del suocero inebetisce per opulenza. Marmi, oro e parquet. Un ambiente che trasmette la forte personalità del signor Reinhart, per cui il bello di cui si circonda ha assunto un valore consolatorio. Non a caso molti dialoghi tra Grace e il padre si svolgono davanti agli splendidi dipinti di Turner della Frick Collection, uno dei musei più belli di N.Y. L’arte è la miglior custode di preoccupazioni e segreti.
La bellezza degli interni, perfettamente corrispondenti al temperamento di chi li abita, e l’atmosfera rarefatta di una New York fredda, meno rumorosa del solito, più intima e allo stesso impenetrabile, rendono “The Undoing” molto bella da vedere. Si resta ammaliati dai salotti, dai grattacieli sullo sfondo, dalle passeggiate per distendere i nervi e sfoggiare un altro lungo signorile cappotto.
In “The Undoing” le facce, i guardaroba e gli immobili sono perfetti. Ci si dimentica quasi che la sceneggiatura non è conforme ai medesimi standard di eccellenza.
Su ciò che i coniugi tengono segreto l’uno all’altro, su ciò che si è disposti a fare per conservare i propri privilegi e sulle imboscate che la nostra subdola natura umana è pronta a tendere a chiunque, pur di mantenere intatta la nostra immagine di vincenti, ci sarebbe stato tanto altro da dire.