Sette giorni. No, queste due parole non sono il titolo di qualcosa, bensì l’espressione, il leit motive, di una delle pellicole più discusse di questi ultimi vent’anni: The Ring, di Gore Verbinski.
Remake americano del film giapponese Ringu, l’opera rappresentò nel suo immaginario una sorta di canto del cigno delle videocassette, di lì a pochi anni rimpiazzate solennemente dai più quotati DVD. Il saluto, però, non avvenne in silenzio, ma conferì alle VHS quel fascino sinistro e conturbante che ancora oggi ricordano in molti. Tutto inizia con il cerchio.
The Ring comincia con la più classica delle scene horror, ovvero due ragazze che tra un pettegolezzo e un altro raccontano la storia di una curiosa videocassetta. Coloro che la guardano, sette giorni dopo, muoiono senza possibilità d’appello. Becca Kotler, mentre narra l’oscura leggenda, tende le labbra in quello che a prima vista somiglia ad un sorriso. In realtà, ogni volta quella storia le fa accapponare la pelle.
Katie Embry, l’altra ragazza, non ride per nulla. Lei quella cassetta l’ha vista, esattamente una settimana prima. Nessuna di loro ci crede davvero, eppure qualcosa di strisciante e spaventoso s’insinua nella mente di entrambe. E se fosse vero? In pochi minuti, accade l’irreparabile. Un’ora dopo, guardando Katie giacere stravolta in una strana pozza d’acqua, Becca capirà suo malgrado che sì, la storia era tutta vera. Sarà quello l’ultimo pensiero logico prima di impazzire.
Rachel Keller è una giornalista determinata e intraprendente, ma è anche la sorella della madre di Katie, la cui morte nonostante le indagini non è ancora stata chiarita del tutto. Ad una in gamba come lei basta poco per risalire alla storia della videocassetta maledetta. Da lì a guardarla, però, il passo è ancora più breve. Da quel momento in poi, a Rachel resteranno soltanto sette giorni di vita, per capire e risolvere il mistero che come un’onda sembra averla sommersa.
The Ring è un curioso esperimento fatto di elementi apparentemente inconciliabili. Il DNA è quello di un horror tipicamente orientale, dove il disagio psicologico stringe a sé un’atmosfera morbosa dal sapore cupo ed inquietante. Mutuata dall’originale Ringu, questa impalcatura sostiene a dovere la trama e lo sviluppo dei personaggi, portando un po’ di novità in un mondo fatto assassini violenti e ragazzine strepitanti.
La sovrastruttura, invece, è quella invece più tipica ed occidentale, laddove le immagini si stagliano con forza imponendosi sullo spettatore. I suoni si intensificano. La tensione viaggia fino a schiantarsi sullo schermo. In questo senso, soprattutto nella seconda parte, The Ring sembra quasi abbandonare il genere Horror per sconfinare nel Thriller, con scelte di regia intelligenti e concitate che sapranno sorprendere anche in più smaliziati.
Questo binomio culturale, di certo raro nei primissimi anni ‘2000, differenzia con cura lo stile della pellicola da quelli circostanti. Bisogna sottolineare, per esempio, la quasi totale assenza di violenza esplicita, legata a doppio filo con la mancanza di scene sanguinolente proprie degli splatter. Verbinski, sulla falsariga del lungometraggio originale, ha scelto una strada più subdola ed ambigua, in cui l’orrore psicologico soppianta parzialmente l’impatto estetico.
Non tutto, da questo punto di vista, è riuscito appieno. L’esigenza più o meno dichiarata di abbracciare in parte la mentalità occidentale ha prodotto delle vistose forzature che talvolta spezzano il coinvolgimento. Il risultato è un’opera che non sembra invecchiata benissimo dal punto di vista cinematografico, e mentre le scelte orientaleggianti riescono ancora a stupire per la loro ambivalenza, quelle nostrane, il più delle volte, stridono fino a lambire il ridicolo.
La storia, ricopiata quasi interamente dalla sceneggiatura originale, risulta ancora splendida e ricca di spunti. L’idea di una maledizione finalmente distante dai tipici sortilegi del genere Fantasy o simili, possiede ancora tutto il fascino di cui godeva all’epoca, accompagnata ulteriormente da una velata critica sociale, quantomai attuale, che prende di mira l’intrattenimento televisivo.
Anche l’antagonista, la perfida e giovanissima Samara Morgan, è entrata di diritto nell’immaginario collettivo, ritagliandosi un posto sul medesimo scranno dei grandi mostri dell’horror. Parte del merito va senza dubbio all’ottima interpretazione di Daveigh Chase, esaltata da un trucco che rese celebre ogni centimetro della bambina. Da lodare anche il ruolo svolto da Naomi Watts, distante anni luce dalle tante sterili protagoniste in perenne fuga dal cattivo di turno. Meno convincenti, invece, sono i personaggi di Aiden Keller, poco approfondito e frettoloso, e Noah Clay, il cui sviluppo dal cinema orientale sembra non aver tratto nulla di istruttivo.
Promossi a pieni voti, invece, gli effetti speciali. La capacità di trasformare un semplice televisore in elemento disturbante sorprende in parte ancora oggi, così come l’immagine ormai leggendaria del pozzo coperto cerchiato dal sole. Menzione d’onore per i venticinque secondi della videocassetta maledetta. Un collage di orrori tanto sottile quanto iconico. Lo stesso comparto sonoro, curato nientemeno che da Hans Zimmer, lavora a pieno ritmo per restituire alle scene un’atmosfera sempre tesa ed inquietante.
A livello puramente ritmico, la seconda parte scorre molto più velocemente della prima. La transizione verso un Thriller psicologico in cui la tensione addomestica il terrore, inocula nel mixer una capacità di coinvolgimento fino a quel momento soltanto stilizzata. Il mistero di Samara, e la spada di Damocle posta sul capo di Rachel, mantengono viva l’attenzione per tutta la durata della pellicola, comunque inferiore a quelle più moderne cui siamo abituati.
L’ostacolo che, oggi più di allora, complica la vita al lungometraggio del 2002, è una sensibilità degli spettatori ulteriormente distaccata e impersonale, che rischia di trasformare i tanti momenti lenti in pura e semplice noia.
A scanso di equivoci, siamo qui per dirvi che in The Ring non troverete jump scared alla It¸ né momenti in cui gettare all’aria ogni cosa nelle vicinanze. Soltanto una bambina dai lunghi capelli e la pelle pallida, una storia appassionante densa di mistero e una strana videocassetta che, anche a costo di passare per deboli, sarebbe meglio non guardare mai.