The rider è il secondo film della pluripremiata regista Chloé Zhao, attualmente molto discussa e apprezzata
Nel 2017, la talentuosa Chloé Zhao porta a compimento il suo secondo lungometraggio, The rider, talvolta integrato con il sottotitolo Il sogno di un cowboy. La regista, sceneggiatrice e montatrice, statunitense ma di origine cinese, ad oggi è maggiormente nota per il suo Nomadland, che le è valso l’Academy Award alla regia e al miglior film durante l’ultima edizione degli Oscar e che ha consacrato lo statuto prestigioso della regista. Il suo secondo film, attualmente disponibile per lo streaming sulla piattaforma RaiPlay, è stato curato sotto quasi tutti gli aspetti dalla poliedrica Zhao, che lo ha ideato, scritto e diretto, come è solita fare con molte delle sue opere. La pellicola è stata presentata in anteprima al Festival di Cannes, dove si è guadagnata il Premio Art Cinéma. Successivamente è stato presentato nelle sale, ottenendo guadagni modesti al box-office ma un notevole plauso da parte della critica.
La trama di The rider
The rider è la storia di un giovane cowboy che si trova nella condizione di riscrivere il suo futuro, dovendo decidere se abbandonare le proprie passioni o seguirle andando incontro ad un destino fatale. Nella Pine Ridge Reservation, terra della comunità dei Lakota Sioux, vive il giovane Brady. Il ragazzo abita in una modesta casa con il padre Wayne e la sorella Lilly, affetta da autismo, con cui ha un legame molto profondo. Appassionato di cavalli e astro nascente del rodeo, a seguito di un drammatico incidente Brady viene operato alla testa ma deve convivere con conseguenze non facili: attacchi epilettici e disfunzione motoria della mano destra, che di tanto in tanto si paralizza stringendosi. I medici consigliano al ragazzo di abbandonare il mondo del rodeo e dell’equitazione per non incorrere in peggioramenti, ma sin da piccolo Brady ha respirato e si è nutrito di quell’ambiente. Il suo sogno è sempre stato quello di affermarsi nell’ambito del rodeo, perciò il consiglio dei medici risulta per lui particolarmente difficile da mettere in pratica.
Il ragazzo vede le conseguenze di ciò a cui va incontro sul suo amico Lane, che dopo un incidente simile al suo ha riscontrato gravi danni cerebrali e si trova in una clinica, quasi paralizzato. Brady fatica molto ad allontanarsi dal suo mondo, ma il malessere aumenta quando il padre vende il suo cavallo poiché a corto di denaro. Il giovane, per distrarsi e aiutare economicamente la famiglia, inizia a domare cavalli e a lavorare in un supermarket, ma spesso chi gli è intorno (amici e sconosciuti) lo intima a tornare al rodeo, senza percepire la gravità della sua situazione e rendendo per lui il distacco ancora più penoso. A seguito di altre crisi, date dal suo ostinarsi a cavalcare, i dottori lo avvertono che la sua passione potrebbe risultargli fatale. Il protagonista, perennemente indeciso e tormentato, dovrà quindi scegliere se vivere una vita lunga ma insoddisfacente o se seguire il suo sogno rischiando la morte.
Gli interpreti non convenzionali di The rider lo rendono un ibrido tra film autobiografico e finzione narrativa
Zhao si è dimostrata in più occasioni capace di tirare fuori il meglio dai suoi interpreti, anche se non sono attori di professione, come in questo caso. The rider, infatti, ha dei forti elementi autobiografici relativi all’esperienza di Brady Jandreau, che nel film interpreta il protagonista. Zhao ha conosciuto il ragazzo durante le riprese del suo esordio registico, Songs my brothers taught me, ed è immediatamente rimasta rapita dal suo trascorso. Affascinata dalle vicende che Brady le aveva riferito decide di riportarle in un film in cui il ragazzo interpreta se stesso. Non solo lui: anche quelli che nella pellicola compaiono in qualità di padre e sorella del ragazzo sono, in effetti, il vero padre e la vera sorella di Brady, Tim e Lilly Jandreau. La famiglia nel mondo filmico assume il cognome di Blackburn, ma resta la medesima.
Ormai è nota la dote di Zhao di spingere i propri attori verso i loro limiti, sviluppando un’esperienza lavorativa del tutto particolare. Anche in questo caso, seppur non stia collaborando con un attore, la regista sceglie di riportare il protagonista pericolosamente vicino al trauma che ha vissuto nella vita vera. Questo meccanismo, per quanto rischioso e probabilmente logorante per lo stesso Brady, consente una rappresentazione potente e particolarmente efficace, altrimenti quasi impossibile da ottenere considerando che si tratta di qualcuno che non ha esperienza di attore.
La regia di Chloé Zhao, elegante e intensa, riporta già alcuni segni distintivi
Il lavoro di Chloé Zhao dietro alla macchina da presa è indubbiamente ciò che dà corpo e spessore a The rider. Con sguardo partecipe ma mai giudicante, la regia ritrae gli ambienti in modo ineccepibile, rendendoli specchio dello stato emotivo del protagonista. Gli stessi campi che si stendono a perdita d’occhio alle prime luci dell’alba e alle ultime del tramonto lasciano trasparire a fasi alterne meraviglia naturale e disagio rurale. La macchina da presa è capace di rendere i medesimi luoghi in quanto spettacoli agresti ma anche in qualità di opprimente scenario di esasperazione, contraltare del malessere di Brady.
Un ulteriore merito di Zhao sta nell’essere stata capace, sia grazie al lavoro di scrittura che a quello di regia, di rendere perfettamente il dramma del protagonista, senza mai sfociare nel patetismo o nel mélo. L’indecisione e il dolore di Brady sono reali, concreti, rifuggono ogni forma di retorica e si offrono, struggenti, allo spettatore. Per questo film Zhao ricorre inoltre ad un modus operandi che riproporrà anche in Nomadland, girando in luoghi e in condizioni reali. Il più lontana possibile dalle “costruite” riprese in studio, la regista cerca la verità nelle emozioni dei personaggi e nella storia, e per trovarla si immerge nella cruda verità degli ambienti da lei rappresentati.
The rider spazia tra i generi proponendo una matrice western rivisitata in chiave moderna
Molto spesso The rider è stato classificato con l’etichetta di “dramma western contemporaneo”. Certamente il dramma permea gli svolgimenti narrativi relativi alle storia del protagonista. Il western si impone con forza nelle ambientazioni e nei personaggi, sia nell’estetica che nella questione dell’attaccamento all’onore: Brady non vuole smettere di cavalcare solo perché è la sua passione o anche perché verrebbe meno l’immagine che gli altri hanno di lui? Ciononostante, il film può forse essere considerato più propriamente un incrocio, un ibrido, tra documentario e finzione narrativa, soprattutto in ragione del suo replicare su pellicola la vicenda del vero Brady, che prende posto sullo schermo. L’accezione western permane, indubbiamente, ma soprattutto a livello iconico, e quasi per venire scardinata. Il lungometraggio, infatti, tende a sgretolare (in accezione positiva) l’ideale virile associato al genere: Brady non è un eroe perennemente vincente, machista e senza paura, ma è un umano immerso nelle sue paure, incertezze e preoccupazioni. Questo elemento permette di introdurre quello che forse è il vero argomento del film, ossia l’accettazione dei propri limiti. La regia ci propone con una delicatezza paradossalmente dirompente la storia di un giovane che impara ad accettare una nuova versione di sé, costretto ad abbandonare la persona che era.