Nomadland, letteralmente la terra dei nomadi, ovvero la dimensione che appartiene a coloro che sono in viaggio permanente, con una casa su ruote, una casa che si guida, una casa che si sposta tanto e quanto si spostano i suoi proprietari, una casa che è tragitto, carburante e direzioni, una casa che in poco spazio contiene più bagaglio di quanto appaia, una casa mobile, in partenza, in ritorno, in agguato, in fuga, in una parola una casa in movimento esteriore ed interiore costante.
Nomadland compare anche nel titolo del libro d’inchiesta con cui la giornalista Jessica Bruder ha indagato e raccontato una fetta di popolazione americanissima che si è trovata ad avere per abitazione un camper e nient’altro, esclusa da ogni sussidio statale che la democrazia privatistica made in U.S.A rende sistematicamente inaccessibile a chi ne avrebbe più bisogno, confermandosi una potenza sviluppata, temuta, ma con un altissima percentuale di senza tetto stabile. Nessun contributo, nessuna indennità, lavori stagionali, filosofia della strada e solidarietà tra nomadi, secondo il vandwelling lifestyle, che elogia la vita in un veicolo qualsiasi (bus, furgone, macchina, camper o case mobili).
Da qui il talento sensibile di Chloe Zao trae spunto per mettere insieme il suo Nomadland, Leone d’oro alla scorsa Mostra internazionale del Cinema di Venezia, ultima, pluripremiata e pluricandidata ad importanti riconoscimenti, fatica di una regista che in Cina nasce, ma in America studia, narratrice attenta di una certa realtà marginale tutta statunitense, straniera in patria, che stenta ad integrarsi con ciò che la circonda, e che permane e resiste spesso come fenomeno di folklore, in perimetri di tolleranza o sfruttamento che non rendono giustizia alla storia di chi vive in quelle condizioni.
Lo abbiamo visto con gli indiani di Songs my brother taught me, con il cowboy indigeno delle riserve in The rider e lo ritroviamo qui dove punto di partenza è Empire, una cittadina sperduta e sospesa immobile di fronte allo skyline delle montagne del Nevada, esempio urbanistico di uno dei tanti agglomerati aziendali senz’ anima, che nascono attorno ad un’impresa, dipendono dai suoi posti di lavoro e nel frattempo scimmiottano una vita normale, ma, in caso di crisi, e la crisi del 2008 fu forte ed estesa, si seccano, si svuotano, venendo progressivamente abbandonati da ogni forma di vita.
Tant’è vero che nel 2011 il codice di avviamento postale di Empire sparisce, per totale mancanza di persone cui inviare la qualsiasi. Diventa una città fantasma e spopolata e Fren (Frances McDormand) fa parte di questi spopolatori: dopo che il marito Bo l’ha lasciata a seguito di una lunga malattia, senza più lavoro, senza figli di cui occuparsi, con pochissime disponibilità economiche, salda quel che deve al proprietario del garage che le aveva custodito il poco che le restava, prende l’indispensabile, lo trasferisce sul suo furgone ed inizia una nuova vita da nomade.
Occupazioni saltuarie e nessun sussidio, nuova disciplina ed auto-organizzazione, empatia verso l’esterno ed i “colleghi”, un affetto incontrato di nome Dave (il prezioso David Strathairn), che la richiama all’amore e alla stabilità, messo in un angolo di cuore, stessi amici sulle stesse tratte, spiazzi di neve, di terra o di sabbia in cui ritrovare persone, imparare il baratto, la meccanica basilare da autofficina e l’indipendenza, farsi amica la solitudine e la natura, scoprire le storie di mille fragilità che hanno scelto o hanno trovato la strada come soluzione: si tratta di un modo di pensare alternativo e, all’apparenza, più sano di quello che sta alla base delle normali comunità civili, una società che si pone orgogliosamente al lato del sistema impaginato, che non crede nel capitale, ma in un’economia solidale di sussistenza reciproca, in un rispetto concreto e preliminare verso chiunque si trovi nella stessa situazione, una sorta di fratellanza civile su quattro ruote non convenzionale, capace di far riscoprire il senso di appartenenza ad una collettività smarrita e contemporaneamente far riaffiorare l’autentico tenore della propria identità. Chi siamo, dove viviamo, per arrivare a dire chi sono.
Così Zao ci introduce in un diverso stare al mondo, tra persone che posseggono scheletri nell’armadio di dimensioni variabili, attraverso le bellezze geografiche di un paese che poche volte viene raccontato nella sua bellezza fisica, tra entroterra montuosi e scogliere marine, nei canyon senza tempo o nella bellezza delle rocce, all’interno di parchi naturali con incredibili animali allo stato brado, lungo strade infinitamente uguali contornate dall’identico paesaggio per miglia e miglia o all’ombra di una gigantesca sede Amazon piantata nel mezzo del nulla, dove accorrono come piccole formiche migliaia di operai con troppi o troppo pochi pensieri in testa.
Si mescolano vicende immaginate e vicende reali, in pieno stile Zao, che affianca alla bravura strenua della McDormand, testimonianze concrete di chi vive da nomade: lutti, malattie, perdite, sofferenze, trasformate impacchettate e messe in viaggio continuo, sono tutti houseless ossia senza appartamento inteso in senso stretto, non homeless, poiché home-casa è un luogo del cuore, non un insieme di mattoni, è un’idea, non un vestito da ammirare, è un modo di sopravvivere e come tale possiede la forza di chi non si accontenta. Dunque più della storia, nel film fa la filosofia che c’è dietro e ciò che attraverso di essa viene fuori: non ci interessa sapere tanto oltre le vicende di Fren, ma conoscere cosa la aspetta e come l’affronterà, in questo mondo delle meraviglie capovolto, che ci si immagina come un’ estrema sponda della disperazione, ma che invece è qui rappresentato come un’interdetta sospensione spaziale, martire di qualcosa di grande e mancante, a tratti dignitosissima alba dell’essere umano.
La McDormand, candidata come miglior attrice ai Golden Globe 2021 e probabilmente anche ai prossimi Oscar, qui anche produttrice, ne è l’indiscussa fenice protagonista, capace di brillare tra le ceneri con la sua semplicità indescrivibile e quell’intelligenza che non la fa assomigliare a nessuna delle sue colleghe, connubio atipico e benedetto di ironia, cervello, forza e fragilità. Dialoghi minimali, brevi racconti personali che difficilmente una sceneggiatura potrebbe mettere insieme a tavolino con pari grado di autenticità, calibrati a puntino e mai ingombranti, accostati a vedute di spazi geografici densi e parlanti con silenzi di contemplazione annessi: i nostri occhi sono quelli di Fren, viviamo ed esploriamo ogni nuovo ambiente come l’ennesima opportunità di bellezza, non senza l’ombra di una responsabilità, ma sicuramente senza paura.
Nomadland è la storia di un attraversamento spesso straniante, che si svela nei tramonti, nelle albe, di una donna sola e di un popolo solo, maltrattato, corroso da se stesso, nelle sagome naturali dei cipressi, nei profili delle macerie o nei perimetri di giganteschi edifici senza più anima, di prefabbricati muti e fantasmi, di modelli di dinosauri a dimensioni naturali che compaiono distonici a ricordare che c’era un passato mitico, una grandezza che ora resta solo leggenda, una storia di stelle cadute tra le mani di chi con quelle mani poteva fare tutto ed invece spedisce pacchi, pulisce bagni, frigge patatine. Nessuna traccia della vitalità on-the-road fermata nel tempo sulle pagine di Kerouac, la crisi economica ha consumato la seduzione di una nazione, il modus vivendi ego riferito ha impoverito il singolo, il neoliberismo ha trasformato campi di sogni in fosse comuni: Zao non na fa dramma, non lo indica, lo osserva, e lascia contaminarsi pensiero ed immagine, alle spalle di un contesto opprimente e sulle spalle di un individuo pensante.
La fotografia firmata da Joshua James Richard spazia in questo sguardo, offre aria tanto alle vedute esterne quanto ai momenti di riflessione, mentre Ludovico Einaudi ed il suo inconfondibile pianoforte, colmano anche troppo generosamente ogni gap emotivo che un occhio distratto può aver accumulato. Resta impressa la strada di Nomadland, il lasciar andare che suggerisce od impone, che è arma di sopravvivenza e ferita, un cedere alle cose non alla memoria, perchè nel ricordo vive qualcosa o qualcuno; ecco quella strada, su cui come dice il guru Bob Wells nei panni di se stesso, non si dice mai addio perché ci si rincontra sempre, non abbandona, non giudica ma accoglie, su di essa la morte non accade mai davvero ed è un modello di resistenza, di surviving America in the Twenty–First Century, cui il libro della Bruder fa riferimento.
Scontata, patetica e non capace, come la descrivono i suoi prevedibilissimi detrattori, Chloe Zao è invece un’artigiana di rara bravura, scomoda perché donna, meticcia, sceneggiatrice, montatrice e regista contemporaneamente, una cinese che fa le scarpe all’America, coerentissima nel suo percorso, capace con una manciata di film di spiccare il suo volo ed affrancarsi con carattere nel panorama internazionale: potrebbe essere, se non lo è già, la prova che lo spesso insidioso connubio tra etica ed estetica è efficace, virtuoso e soprattutto possibile.