Che Zhang Yimou abbia rivoluzionato l’estetica del wuxiapian (il cappa e spada in salsa cinese) per adattarlo alle esigenze del pubblico occidentale è un dato di fatto: la sua trilogia a tema formata da Hero (2002), La foresta dei pugnali volanti (2004) e La città proibita (2006) è riuscita a sfondare nel mercato globale, seguendo idealmente il successo solo pochi anni prima de La tigre e il dragone (2000) di Ang Lee, che aveva definitivamente sdoganato il filone anche al di fuori dei confini nazionali. Nel 2016 il Nostro aveva ulteriormente ampliato il proprio range di audience con il suo primo film in lingua inglese che vedeva un cast misto capitanato dalla star hollywoodiana Matt Damon: in The Great Wall si raccontava una presunta leggenda relativa alla costruzione della grande muraglia in chiave fantasy ma il film, tolte le splendide coreografie che riportavano alla mente quelle del Cirque du Soleil, si era rivelata una fiacca e confusa riproposizione di topoi che svilivano le origini stesse della monumentale costruzione. Vi era perciò molta attesa dai cinefili appassionati per il suo ultimo lavoro, Shadow, presentato fuori concorso alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel settembre 2018 e suggerente, fin dalla locandina, dei collegamenti al cuore del concetto di yin e yang, dicotomia filosofica tra gli opposti da sempre presente non solo nell’etica nativa ma anche al centro delle varie arti marziali.
E con Shadow il regista realizza una delle sue opere più aspre e sorprendenti, distaccandosi da un’epica tanto coinvolgente quanto di facile consumo per raccontare un dramma di intrighi e tradimenti ambientato in un lontano passato, quando il regno di Pei perse la fondamentale città di Jingzhou, con il controllo logistico che venne deciso da un duello tra il comandante Ziyu e l’imbattibile Yang Cang, leader del regno di Yang che ottenne così quel luogo strategico dal punto di vista territoriale e commerciale. L’occasione per una rivincita viene colta al volo dallo sconfitto, scatenando però le ire del suo sovrano che preferisce evitare un nuovo possibile conflitto. Ma Ziyu nasconde un segreto sorprendente: colui che si fa passare ora per l’abile guerriero è infatti un sosia di nome Jingzhou, una sorta di “ombra” cresciuto fin da quand’era bambino per sostituire la propria figura adottiva nei momenti di maggiore opportunità, con il vero Ziyu che si nasconde gravemente ferito in un posto segreto della reggia. E mentre ognuno dei personaggi diventa una pedina a proprio modo indispensabile ai fini degli eventi, il rapporto tra originale e copia si complica ulteriormente anche per via della presenza della bella Xiao Ai, moglie del primo che inizia a provare sentimenti per il secondo.
Più semplice a capirsi su schermo che nella sinossi appena enunciata, la trama di Shadow ha in realtà una finezza di scrittura e di cura psicologica nei personaggi che rasenta la perfezione, dando il via nelle due ore di visione ad una sorta di tragedia shakespeariana che pare una versione ulteriormente evoluta di quanto visto nel già citato La città proibita. Ma a differenza di questa, un’opera colorata che proprio sugli sfavillanti giochi cromatici impostava la sua meravigliosa resa scenografica, qui la fotografia è perennemente impostata su toni cupi e grigiastri, quasi a sottolineare ulteriormente quella parte non illuminata dalla luce del sole citata dal titolo internazionale. Ma non è solo una scelta puramente visiva, con i rimandi per l’appunto allo yin e allo yang esplodenti in una splendida scena di duello tra i due volti della stessa medaglia su un palcoscenico “disegnato” con tali simboli, anche la narrazione infatti segue questo costrutto dai toni dark e poco ariosi, con la crudeltà degli uomini che domina ogni singolo fotogramma della raffinata messa in scena fino ad una serie di rese dei conti nell’amaro finale regalante colpi di scena inaspettati dai quali nessuno esce realmente vincitore.
Una sorta di ode all’etica della sconfitta che passa per tragiche perdite e potenziali sussulti romantici destinati a non trovare sbocco, con almeno una manciata di sequenze action di livello stilistico assoluto: l’assalto alla città di Jingzhou compiuto dagli invasori con scudi rotanti usati sia come arma di difesa che come mezzo di trasporto possiede una forza primigenia e spettacolare delle grandi occasioni, capace di stupire ed emozionare al contempo. La colonna sonora si adatta a questi toni cupi e tenebrosi senza eccessi pomposi gratuiti e ricongiunge la storia e i personaggi ad un’idea di epica secca e brutale, con un paio di sequenze dove la violenza si esprime in tutta la sua sporca rudezza. Il cast, privo a differenza di altre opere di Yimou di star autoctone famose anche all’estero, offre performance sanguigne ed essenziali che ben si adattano nel plasmare alter-ego disillusi e complessi, rivelandosi l’ennesimo punto di forza di un’opera pressoché perfetta nella sua ennesima decostruzione del filone che riconsegna atmosfere in bilico tra modernità e tradizione, ennesima ditria tra yin e yang in forma cinematografica.
Voto Autore: [usr 4]