Alice Diop ha vinto il Leone d’argento-Gran premio della giuria con Saint Omer, pellicola che si è aggiudicata anche il Leone del futuro per la miglior opera prima della 79a edizione della Mostra del cinema di Venezia.
Affermata documentarista – La Permanence del 2016 è stato premiato al Cinéma du Réel, Nous del 2021 ha vinto il premio come miglior film della sezione Encounters a Berlino –, la regista francese per la prima volta realizza un lavoro di finzione. Un esordio nel cinema di fiction che comunque mantiene ancora un legame stretto con la dimensione documentarista. Saint Omer è infatti ispirato al processo tenutosi nel 2016 nella città di Saint-Omer nei confronti di una madre infanticida, che tre anni prima aveva abbandonato la figlia di quindici mesi sulla spiaggia di Berck-sur-Mer, tra l’alta marea e le fredde temperature invernali. Diop stessa seguì il processo, dopo aver visto sui giornali la foto della donna in partenza da Parigi con la figlia per raggiungere la città costiera: “ho avuto l’intuizione che potesse essere senegalese, c’era qualcosa di familiare in lei che mi ha colpito”. Ma non è stata solo la percezione di comuni origini a spingere la regista a interessarsi della storia; il vissuto dell’accusata, emerso durante il processo, interroga l’abisso insondabile e tragico che l’esperienza della maternità può spalancare nell’animo di una donna.
Saint Omer, Medea e chimere
Nel film, la scrittrice Rama (Kayije Kagame) assiste al processo di Laurence Coly (Guslagie Malanda), accusata di aver ucciso la figlioletta. Le deposizioni della donna, che la regia racconta con piani fissi, sono un flusso di parole, interrotte solamente dalle domande del giudice o dei legali.
E Saint Omer è innanzitutto un film di parole: il racconto di Laurence domina la prima parte del film. Colta, cresciuta in una famiglia piuttosto agiata, è arrivata in Francia per studiare filosofia. Le sue ambizioni intellettuali sono state viste come eccentriche dai suoi docenti accademici, sorpresi dal fatto che una senegalese potesse interessarsi al pensiero di Ludwig Wittgenstein. Quando incontra e si innamora un uomo più grande di lei, rimane incinta e vive la gravidanza in completo isolamento, senza confidare a nessuno, nemmeno alla madre, il suo stato. La nascita della figlia, partorita in casa senza supporto medico, non verrà mai registrata all’anagrafe né dalla madre, né dal padre, assente per lunghi periodi.
Le persone presenti al processo faticano a comprendere cosa abbia portato Laurence, giovane intelligente e piena di speranze, a compiere un gesto simile. L’accusa chiama in causa la stregoneria, facendo leva sulle credenze della donna in forze oscure e invisibili; la difesa sottolinea la vigliaccheria del compagno che, interessato a una relazione opportunistica e priva di qualsiasi forma d’amore, l’ha abbandonata in un momento delicato.
Per Rama il processo è invece riflessione sulla maternità: lei stessa sta per avere un figlio e ha un rapporto sofferto con la propria madre, definita una donna “spezzata”. Inizialmente vede in Laurence una moderna Medea; del resto sembra facile ricondurla a quella figura mitologica (e in Saint Omer scorrono le immagini di Maria Callas, la Medea di Pasolini, in procinto di uccidere i figli). Ma più il processo va avanti, più Rama vede in Laurence il riflesso delle proprie paure, il fantasma di una maternità che può non essere simbolo di vita, gioia, appagamento. Sequenze di immagini del passato di Rama, che si alternano al processo, la mostrano bambina incerta, che, durante le feste in famiglia, osserva con occhi confusi e spaventati la madre. Un rapporto con la figura materna mai risolto, sul solco di una complessità che forse non troverà mai quiete in spiegazioni razionali o psicologiche.
Come nel caso di Laurence: dove non arriva la legge, l’ordinato e classificatorio pensiero normativo, arriva il mistero tempestoso della genetica, che cerca di spiegare la mostruosità del suo gesto. Nell’arringa finale del processo, l’avvocato donna che la difende parla delle cellule chimera, parte di quello scambio reciproco tra cellule materne e cellule fetali. Contrassegno biologico della struggente dipendenza madre-figlio/a che dura tutta la vita, racchiude il mistero della gravidanza, un thauma meraviglioso e al tempo stesso spaventoso, nel quale una donna può perdersi e non ritrovarsi più.
Un tema questo che anche Andrew Dominik, con il suo film in concorso Blonde, cerca di esplorare, ma con intenti, modalità registiche e esiti diversi, strumentali alla ricostruzione delle sofferenze della protagonista, Marilyn Monroe. Nell’opera di Diop invece niente è strumentale, cioè al servizio di una narrazione/rappresentazione definita e stereotipata del femminile. Nella storia di una figlia tragicamente consegnata alle onde marine e di una madre perduta, Alice Diop porta lo spettatore in un mare di incertezze, attraversato dai venti del razzismo più subdolo e inconscio, e dall’ipocrisia, mosso dal dubbio su cosa significhi e cosa comporti diventare madre. Con una regia controllata ed essenziale, Diop realizza un film potente e diretto, che non intende inscriversi in un genere: Saint Omer non è un dramma, un film ispirato a una storia vera, una pellicola su un caso giudiziario; è componimento in divenire di una tragedia, nel senso greco del termine, messinscena di tensione morale, che interroga e turba in modo straordinario i limiti di un ethos condiviso sulla maternità.