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Richard Jewell

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Gli eroi son tutti giovani e belli, dicevano. La purezza del loro animo e la dignità delle loro gesta abitano di certo in un corpo audace, guerriero, valoroso. E se fosse un anonimo sempliciotto di provincia a sventare una strage? Un prode guerriero dal labbro tremolante, dall’aspetto tutt’altro che possente, dall’indole tutt’altro che impetuosa. Un combattente morbido, ingenuo, mammone. Può essere? Richard Jewell è un eroe, credetemi. Se solo avesse agito con fare meno incerto, se solo avesse indossato una vera uniforme, se il suo aspetto fosse stato più avvenente, se…

Si sa il mostro va sbattuto in prima pagina. E qualora la malvagia creatura tardi a palesarsi alla ghigliottina mediatica sarà condannato chi più ci assomiglia. Gli eroi non sembrano più piacerci molto, probabilmente preferiamo un colpevole da disprezzare. Clint Eastwood ci riporta sulla sua strada, su quel sentiero lastricato di storie americane, storie tristi, eroiche, grandiose. “Richard Jewell” è un film con intenzioni nitide e idee pulite: lucido, cosciente, compiuto; forse il brillante autentico della produzione recente dell’inesauribile maestro del cinema made in USA.

Richard (Paul Walter Hauser) ha sempre sognato una vera divisa, ma possiede solo una comune uniforme di addetto alla sicurezza. È armato fino ai denti, ma il suo arsenale è tutto riposto sotto il letto, nella casa che condivide ancora con mamma (Kathy Bates). Vuole fare rispettare le regole, essere utile, giusto, fare la differenza. Eppure nessuno lo prende sul serio. Sarà per quell’ingenua fiducia nel sistema o per quell’aspetto molle, ma da lui non ci si aspetta alcuna scaltrezza. Poi l’ignorato tontolone scopre lo zaino zeppo di esplosivo al Centennial Park di Atlanta, assilla i colleghi affinché si rispettino i protocolli di sicurezza, scongiura la strage. Centoundici feriti, due morti: sarebbero potuti essere molti di più. Richard Jewell è un eroe.

Eppure è un soggetto insolito. L’FBI non ha piste da seguire, prove su cui investigare. E se quella nullità neoeletta a semidio rispondesse meravigliosamente al profilo dell’attentatore solitario? Maschio, bianco, vergine, attratto dall’uniforme che non è mai riuscito a conquistare, deciso a divenire un eroe per l’America intera sventando un attentato da lui stesso orchestrato. Ecco. È fatta. Richard Jewell l’eroe, Richard Jewell il mostro.

Richard Jewell

Richard Jewell voleva solo proteggere e servire, sarà umiliato, violato, perseguitato. A noi basta guardarlo negli occhi per convincerci della sua innocenza: le sue labbra vacillano, non sa come difendersi da un sistema che ha sempre venerato, piange e mangia in un fast food, mentre l’orgoglio per aver fatto la cosa giusta si tramuta nella paura che nessun’altro vorrà più assumersi la responsabilità di compierla.

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Richard Jewell

“Richard Jewell” è un dramma americano irreprensibile: i movimenti di camera sono fluidi, puliti, nessuna sovrastruttura, nessun orpello. Clint Eastwood ci spinge a scrutare i volti, è lì che troveremo le storie, lì troveremo la verità. Richard Jewell è innocente perché è la sua faccia a dircelo. La sua tenerezza, d’animo e d’spetto, portata sullo schermo da un grandioso Paul Walter Hauser (già visto in “Tonya” e “BlacKkKlansman”) contrasta con umanissimo vigore le mascelle volitive di Jon Hamm e Olivia Wilde: l’FBI e i media incarnano l’ideale di bellezza e caparbietà americano, ma è Jewell, alterando arbitrariamente le etichette, il vero eroe.

Richard Jewell

Questa storia la si sarebbe potuta raccontare in altri modi: cedendo alle tensioni dell’action, strizzando l’occhio al legal thriller, indugiando morbosamente sui sentimentalismi. Tuttavia Clint Eastwood non intende travolgerci, vuole capire insieme a noi come diavolo è potuto accadere che un innocente sia stato accusato per aver fatto esattamente ciò che era chiamato a fare. E così si concentra sul racconto, sulla manipolazione, su quel pressante interrogatorio in cui si richiede che il mostro si adegui al ruolo che il sistema ha deciso di assegnargli, su quella strategia difensiva che ha tutto il sapore di un’operazione mediatica. Ci chiede di fidarci, di credere anche in ciò che decide di non mostrarci.

Ed è qui che risiede il prodigio di “Richard Jewell”, nell’atto di fede che reclama. Credere, dare credito alla versione meno popolare della storia, fidarsi di un grassoccio di provincia, affidarsi al racconto. Questo è ciò che ci chiede Clint Eastwood, questo è ciò in cui crede Clint Eastwood. E ci fa venire una gran voglia di nutrire la medesima ostinata fiducia nelle virtù morali del cinema.

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Voto Autore: [usr 4,5]

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Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.
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