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Red Dot – Recensione del thriller svedese su Netflix

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Come insegna il buon vecchio Fargo, una deserta distesa di bianco accecante può essere un’ambientazione inquietante quasi quanto un paesaggio buio e silenzioso. Red Dot prende a piene mani da questa lezione, creando tensione e inquietudine con pochissimi elementi, un paesaggio innevato, un cielo nero illuminato solo dalla verde aurora boreale e un puntino rosso, il puntatore di un misterioso fucile che perseguita la giovane coppia protagonista.

Nadja (Nonna Blandel) e David (Anastasios Soulis) sono due neosposi in attesa del loro primo figlio. Il momento però non potrebbe essere peggiore: frustrati e tesi, i due sono più lontani che mai. Così, David decide di riaccendere il sentimento portando Nadja a vedere l’aurora boreale, in un viaggio romantico solo loro due e il loro cane, Boris. Ma durante il tragitto indispettiscono un gruppo di brutti ceffi e quando sono da soli accampati a vedere l’aurora, vedono un pallino rosso che li punta. Da quel momento, dovranno lottare per la sopravvivenza senza mai vedere chi li sta puntando, e senza saperne il perché.

Con Red Dot, il regista svedese Alain Darborg riesce a creare un solido melodramma mascherato da thriller minimalista. Usando pochi elementi e pochi personaggi, riesce a svoltare spesso la direzione della trama, senza essere mai né troppo banale né troppo assurdo. Il modo in cui riesce a rendere originale la storia è infatti quello di riassestarne i binari, spostandola da un thriller di stampo classico (una coppia assediata da un’entità misteriosa in uno spazio deserto e inospitale) a un revenge movie di stampo marcatamente melodrammatico. E quest’operazione funziona dal momento che disattende le aspettative dello spettatore. Allo stesso tempo, le aspettative dello spettatore erano costruite molto in alto: un’ambientazione particolare, una minaccia inesorabile costituita da un semplice puntino rosso, le premesse di sopravvivenza da bear grills in un paesaggio che non ha letteralmente niente se non freddo e neve e ghiaccio, una coppia di persone normalissime senza qualità fisiche o conoscenze particolari.

Poteva essere un thriller veramente con i fiocchi. E la parte in effetti di thriller è giocata molto bene: tutti i pericoli e le difficoltà non fanno altro che aumentare la concretissima minaccia di morte per i due protagonisti. Peccato che duri non più di una ventina di minuti, prima di arrivare alla storia vera e propria. Storia comunque interessante, ma che si separa da una premessa dai risvolti più gustosamente prolifici. La svolta drammatica è comunque una scelta comprensibile: non è facile giocare con così pochi elementi. I confined thriller così minimalistici possono essere allo stesso tempo una benedizione e una condanna: se fatti bene (vedi 10 Cloverfield Lane, o Get Out) diventano dei veri e propri gioiellini, ma possono anche scadere nell’ovvio e nel ripetitivo. Cosa che qui non accade.

Altro vantaggio della svolta drammatica che prende Red Dot è la caratterizzazione dei personaggi. Da vittime (di pregiudizio razziale, soprattutto) diventano pian piano progressivamente più antipatici e patetici, ad antieroi, fino ad essere i veri e propri cattivi della storia. Specialmente David, ingegnere codardo che fin dall’inizio ci viene detto essere propenso a scappare dalle situazioni difficili, che arriva alla fine a non poter più scappare. La stupidità dei personaggi è quasi comica, soprattutto quando è quasi unicamente progettata per fare andare avanti la trama nel modo premeditato.

Tuttavia questi piccoli difetti non vanno a minare una solida ora e mezza di visione, in cui tensione e idee (anche visive, vedi la variazione del puntino rosso nel finale) si vanno un po’ ad annullare a vicenda.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Un thriller dai risvolti drammatici ambientato nel suggestivo spazio innevato della Svezia più disabitata, Red Dot ha qualche idea valida e una progressione non banale della storia.
Marianna Cortese
Marianna Cortese
Attualmente laureanda in Lettere Moderne, ho sempre avuto un appetito eclettico nei confronti del cinema, fin da quando da bambina divoravo il Dizionario del Mereghetti. Da allora ho voluto combinare cinema e scrittura nei modi più diversi e ho trangugiato di tutto: da Kim Ki-Duk a Noah Baumbach, da Pedro Almodovar a Alberto Lattuada. E non sono ancora sazia.

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