Come insegna il buon vecchio Fargo, una deserta distesa di bianco accecante può essere un’ambientazione inquietante quasi quanto un paesaggio buio e silenzioso. Red Dot prende a piene mani da questa lezione, creando tensione e inquietudine con pochissimi elementi, un paesaggio innevato, un cielo nero illuminato solo dalla verde aurora boreale e un puntino rosso, il puntatore di un misterioso fucile che perseguita la giovane coppia protagonista.
Nadja (Nonna Blandel) e David (Anastasios Soulis) sono due neosposi in attesa del loro primo figlio. Il momento però non potrebbe essere peggiore: frustrati e tesi, i due sono più lontani che mai. Così, David decide di riaccendere il sentimento portando Nadja a vedere l’aurora boreale, in un viaggio romantico solo loro due e il loro cane, Boris. Ma durante il tragitto indispettiscono un gruppo di brutti ceffi e quando sono da soli accampati a vedere l’aurora, vedono un pallino rosso che li punta. Da quel momento, dovranno lottare per la sopravvivenza senza mai vedere chi li sta puntando, e senza saperne il perché.
Con Red Dot, il regista svedese Alain Darborg riesce a creare un solido melodramma mascherato da thriller minimalista. Usando pochi elementi e pochi personaggi, riesce a svoltare spesso la direzione della trama, senza essere mai né troppo banale né troppo assurdo. Il modo in cui riesce a rendere originale la storia è infatti quello di riassestarne i binari, spostandola da un thriller di stampo classico (una coppia assediata da un’entità misteriosa in uno spazio deserto e inospitale) a un revenge movie di stampo marcatamente melodrammatico. E quest’operazione funziona dal momento che disattende le aspettative dello spettatore. Allo stesso tempo, le aspettative dello spettatore erano costruite molto in alto: un’ambientazione particolare, una minaccia inesorabile costituita da un semplice puntino rosso, le premesse di sopravvivenza da bear grills in un paesaggio che non ha letteralmente niente se non freddo e neve e ghiaccio, una coppia di persone normalissime senza qualità fisiche o conoscenze particolari.
Poteva essere un thriller veramente con i fiocchi. E la parte in effetti di thriller è giocata molto bene: tutti i pericoli e le difficoltà non fanno altro che aumentare la concretissima minaccia di morte per i due protagonisti. Peccato che duri non più di una ventina di minuti, prima di arrivare alla storia vera e propria. Storia comunque interessante, ma che si separa da una premessa dai risvolti più gustosamente prolifici. La svolta drammatica è comunque una scelta comprensibile: non è facile giocare con così pochi elementi. I confined thriller così minimalistici possono essere allo stesso tempo una benedizione e una condanna: se fatti bene (vedi 10 Cloverfield Lane, o Get Out) diventano dei veri e propri gioiellini, ma possono anche scadere nell’ovvio e nel ripetitivo. Cosa che qui non accade.
Altro vantaggio della svolta drammatica che prende Red Dot è la caratterizzazione dei personaggi. Da vittime (di pregiudizio razziale, soprattutto) diventano pian piano progressivamente più antipatici e patetici, ad antieroi, fino ad essere i veri e propri cattivi della storia. Specialmente David, ingegnere codardo che fin dall’inizio ci viene detto essere propenso a scappare dalle situazioni difficili, che arriva alla fine a non poter più scappare. La stupidità dei personaggi è quasi comica, soprattutto quando è quasi unicamente progettata per fare andare avanti la trama nel modo premeditato.
Tuttavia questi piccoli difetti non vanno a minare una solida ora e mezza di visione, in cui tensione e idee (anche visive, vedi la variazione del puntino rosso nel finale) si vanno un po’ ad annullare a vicenda.