Ci sono molti modi per essere madre. E molti film per tentare di afferrare il mistero del più viscerale dei vincoli. “Mother” è l’ultimo film del regista giapponese Tatsushi Ōmori. Una storia imbrattata da una lealtà indissolubile, incoraggiata da una ribellione inammissibile. “Mother!” è anche il titolo dell’imprevisto racconto di Darren Aronofsky. Un film che ci ha abbandonato nel frastuono, mentre Jennifer Lawrence, madre meravigliosa e disorientata, resisteva alla violenza del marito e a quella dell’intero mondo. “Mother” è anche il giallo intriso d’amore e ambiguità di Bong Joon-ho. Il bisogno di difendere il proprio figlio ad ogni costo e di dimenticare la bestialità del nostro stesso sangue. Visioni diverse, alterate, confuse, agitate. Madri smarrite e film straordinari.
“Mother” di Tatsushi Ōmori, da poco disponibile nel catalogo Netflix, si inserisce perfettamente nell’elenco dei sorprendenti racconti cinematografici che portano lo stesso monolitico titolo. La pellicola è ispirata ad un drammatico fattaccio di cronaca avvenuto nel 2014. Al centro il legame corroso dalla dipendenza tra una madre e suo figlio, indissolubilmente insieme fino al tragico epilogo.
Un legame tossico sventrato dentro lo schermo, un film difficile da sopportare. Una relazione madre-figlio che esige l’annientamento psicologico del figlio per continuare a sorreggersi. È questo il tema di “Mother”, la cui madre single Akiko (Masami Nagasawa) si serve dell’affetto del figlio Shuhei (Sho Gunji e Daiken Okudaira) al fine di custodire una presa indistruttibile su di lui. Uno “Psycho” orientale privato dell’orrore hitchcockiano, pervaso della struggente malinconia del dramma nipponico, intrappolato nella morsa materna.
Shuhei è bambino dai capelli liscissimi e dallo sguardo sconfitto. Si arrampica sconsolato per la strada di casa, si preoccupa del suo ginocchio sanguinante. La madre lo raggiunge pedalando su di una bicicletta. Gli sorride, sembra dirgli di non curarsene. Gli lecca sconsideratamente il ginocchio e prosegue verso casa. Shuhei la segue con passo incerto. Il loro rapporto è già tutto ingabbiato in questa prima scena. Akiko madre esuberante, diffidente alle regole ed emotivamente immatura. E Shuhei, figlio ignorato, dimenticato ad inseguire dannatamente un affetto di cui soffre moltissimo la mancanza.
Akiko è una giovane madre squattrinata. Probabilmente quel figlio nemmeno lo avrebbe voluto. Indolente ai doveri sociali e familiari, perde tempo con alcol e uomini inaffidabili. Chiede denaro alla famiglia d’origine che non si lascia scappare occasione per ribadirle la sua inadeguatezza, senza mai trovare un modo per aiutarla davvero. Ad avere bisogno di protezione è soprattutto il piccolo Shuhei intrappolato dalle urla di una madre che non fa altro che scommettere, gettando risparmi e speranze. La donna non si prende cura del figlio, lo lascia solo per giorni, convincendosi che possa cavarsela da solo.
Shuhei non va scuola, non viene abbracciato, né rassicurato. La madre sembra ricordarsi di lui solo quando può servirsene. Per ottenere un aiuto economico, per l’ennesima estorsione di denaro. Akiko esercita sul figlio un’influenza ossessiva, totalizzante. Anche quando sarà offerta a Shuhei una via di fuga per liberarsi dalla morsa materna, il figlio deciderà di inabissarsi ancora più a fondo nella voragine della dipendenza.
“Mother” è il racconto di un regista visionario, bravissimo nel costruire dentro lo schermo una vita familiare spezzata e violentata. La funzione genitoriale qui non è solo interrotta, ma completamente recisa. Il genitore ha un’emotività guasta: non vi è alcun approccio logico alla vita familiare. Tutto si risolve in un gioco manipolatorio, in una complessa truffa per mezzo della quale non si raccatta mai nulla di buono.
Masami Nagasawa – volto molto noto del mondo dello spettacolo giapponese – è sorprendente nei panni di una madre annullata e nociva. I suoi gesti appaiono bloccati, neutralizzati da una smania di possesso che le esplode dentro come l’unica essenza del suo amore. La sua immobilità emotiva è squarciata solo attraverso le tante parole urlate contro il mondo, contro quel figlio che le resta accanto sempre, sfidando ogni assennatezza. Il film riesce così a far trapelare un disagio scaturito da un trauma o da una malattia psicologica, che sebbene non venga svelato, viene raccontato per mezzo di una interpretazione molto riuscita.
Una storia come questa ha un vitale bisogno di volti e gesti autentici, e il cast scelto riesce molto bene a riprodurre un inferno vissuto a salari minimi, in sistemazioni improvvisate, percorso ai bordi delle strade. Le esistenze dei protagonisti sono affrontate senza alcun progetto né aspettativa. Si vive un’ora alla volta, tutto è pervaso da un’inerzia generale. A continuare imperterrita a dimenarsi è solo la crudeltà di una madre anaffettiva. Ed è caotico, e fortemente illogico, per il figlio, tentare di adempiere alla necessità di un genitore di ostacolare ogni forma di felicità a lui destinata.
Shuhei vuole giocare con gli altri bambini, ma gli viene detto che verrà brutalmente emarginato. Meglio non provarci nemmeno, meglio mettersi al riparo dalle delusioni. Shuhei vuole studiare, andare a scuola, leggere libri. In quelle pagine trova tutto il sapore di quel mondo che non ha mai vissuto. Eppure non gli viene permesso. E lui resta in attesa. Appeso ad un filo d’amore, che all’altro capo è già stato tagliato.
“Mother” è interamente raccontato dal punta di vista di Shuhei, eppure noi, a differenza sua, saremo capaci di discernere la spietatezza dall’amore. Ōmori arresta la sua camera ogni volta che Shuhei si trova dinnanzi ad una scelta. Mentre lui valuta se fuggire lontano dalla donna che lo ha inchiodato al fallimento, lo spettatore vorrebbe urlare. Dirgli con tutto il fiato che ha in gola di non soffermarsi a pensare, di affrettarsi a cogliere ogni piccola speranza di liberazione. Finiremo per essere anche noi reclusi fra le sbarre delle occasioni perdute, avvinti da un amore più forte della ragionevolezza.
“Mother” è dramma che afferra brutalmente i suoi personaggi interrotti trascinandoli con sé fino alla sua beffarda e crudele conclusione.