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Men in black, recensione del primo film della saga

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Men in Black è un film del 1997 diretto da Barry Sonnenfeld, è il primo di una serie di tre film che si basa sull’omonimo fumetto di Lowell Cunningham. Il genere fantascientifico ha al centro della sua particolarità la possibilità per gli spettatori di viaggiare con la mente.

Men in Black prende spunto da reali teorie circa l’esistenza di questi “Uomini in nero” che sarebbero incaricati dal governo degli Stati Uniti d’America di scoraggiare l’idea dell’esistenza degli UFO intimidendo anche severamente chiunque avvistasse oggetti non identificati o altro.

Fin dal primo film comunque capiamo che come per i fumetti il tono è divertente e scanzonato, con pure diversi spunti di riflessione che consentono agli spettatori di pensare all’identità dell’uomo nell’universo, alla politica e alla società.

Men in Black

Men in Black: poliziotto buono e poliziotto cattivo

Vestirai solamente con abiti approvati dai servizi speciali MIB, ti conformerai all’identità che ti daremo, mangerai dove ti sarà indicato, vivrai dove ti sarà indicato, d’ora in poi non avrai segni di identificazione di alcun genere, non attirerai mai l’attenzione, la tua immagine è plasmata in modo da non lasciare ricordi duraturi nelle persone che incontri. Sei qualcosa di vago, identificabile soltanto come un déjà vu, e cancellato altrettanto rapidamente. Tu non esisti, non sei mai nato, l’anonimato è il tuo nome, il silenzio la tua lingua madre. Tu non fai più parte del sistema, tu sei al di là del sistema, sei al di sopra di esso, sei oltre. Noi siamo quelli, siamo loro, siamo gli uomini in nero, Men in Black!

Questa è la presentazione che l’Agente Z, capo dei Men in Black, fa del loro ruolo. Il compito dei Men in Black è chiaro e si lega a idee come il tempo che sfugge o che non si identifica, il sistema sovvertito o addirittura ignorato, ecc. La trama e anche il modo di porla sono molto anni 90: il ragazzo ribelle che viene accolto e addestrato, il maestro scorbutico e scontroso, e poi il nemico da trovare e sconfiggere.

Tuttavia, a rendere interessante ed efficace la vicenda è proprio la contrapposizione tra i due personaggi centrali. J, Will Smith, e K, l’agente che lo addestra, interpretato da Tommy Lee Jones. Quest’ultimo rappresenta il prototipo della vecchia guardia, mentre l’Agente J è il cambio generazionale nei Men in Black ma anche nel mondo del cinema se vogliamo, vista la differenza anagrafica tra i due. E quindi uno è composto, ponderato, per niente impulsivo bensì razionale.

Will Smith, che in ruoli di questo genere è sempre stato molto convincente, è al contrario ribelle, scanzonato, senza disciplina. È però anche temerario, senza filtri, onesto e spontaneo, cosa che sembra costituire un enorme pregio per l’Agente K.

Per questo tutto funziona bene, fa ridere, intrattiene, e consente a tutti di sentirsi parte della squadra. Anche se poi scopriamo che K ha addestrato J per sostituirlo e non per affiancarlo.
 

L’universo, l’escluso e la fantascienza

Le tematiche al centro di Men in Black sono molteplici ed è difficile e superfluo trattarle tutte. La fantascienza, spesso relegata a genere di serie B nella letteratura, ha in realtà diversi spunti che consentono di riflettere sulla realtà che ci circonda e sul posto che la scienza e più in generale l’umanità occupano in tutto ciò che esiste (mondo, universo, ecc.). I Men in Black sono degli esclusi, costretti a stare ai margini per un bene “superiore” a causa dell’immaturità della gente.

Quando J chiede a K perché non dire la verità alla gente, infatti, perché la gente è matura e potrebbe capire, K gli risponde che una persona è matura. Ma tante persone insieme, purtroppo, non lo sono. Così, i Men in Black da soli portano un peso che impedisce loro di guardare le stelle come tutti gli altri: con meraviglie, misteri, e domande. I Men in Black non hanno domande perché conoscono tutto quello che c’è da sapere, e osservano il mondo con disincanto.

Maneggiano i ricordi degli altri, cancellandoli con un “neuralizzatore”, iconico strumento che cancella la memoria delle persone, ma i propri sono sempre lì. La loro vecchia vita va messa da parte. Men in Black è un film che diverte ma insegna anche cosa può significare per un essere umano conoscere tutto, e quanto forse sia meglio non sapere, o addirittura dimenticare di sapere.

Men in Black

Men in Black e il fascino dell’ignoto

Questo è in realtà il vero motivo che ha reso Men in Black il primo di una serie di film di successo. Qui ad esempio troviamo riferimenti alla Cintura di Orione, con un doppio senso che costituisce il giallo della storia, ma anche il fascino dell’universo. Will Smith con la sua gestualità e il personaggio che interpreta consente di tenere alto l’umore, senza accantonare tutto il sottotesto malinconico che riguarda anche i modi esagerati dell’agente J. Mentre K, che esce apparentemente di scena, da maestro a padre a persona normale incarna un passaggio di consegna classico del mondo fantascientifico.

Non sono bellissime le stelle? Non le guardiamo più.

Guardare le stelle ha un senso diverso per un MIB, per un uomo in nero, ma non per noi spettatori; anzi, grazie alle loro avventure noi dall’ignoto siamo avvolti e intrattenuti.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni
Roby Antonacci
Roby Antonacci
Giornalista per Vanity Fair, collaboratrice per Moviemag, scrivo da sempre di cinema con un occhio attento a quello d'autore, una forte passione per l'horror e il noir, senza disdegnare i blockbuster che meritano attenzione.

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