“La doppia vita di Madeleine Collins” (2021) è stato presentato alle “Giornate degli Autori” di Venezia 78. Nel ruolo principale troviamo la francese Virginie Efira (“Benedetta” di Paul Verhoeven), puntuale e perfetta nella parte. Efira ha il fascino delle dive d’un tempo e, grazie a un carisma innegabile, dà luce a un personaggio pieno di ombre, spigoloso e perverso: Judith, un’affascinante quarantenne, moglie, madre, donna in carriera, premurosa eppure ambigua; attratta, misteriosamente, da menzogne e pericoli. Scivolerà, per questo, lentamente, in un vortice di follia.
Il film, a metà fra un dramma e un thriller, è godibile, e confezionato con eleganza. Dietro la macchina da presa c’è Antoine Barraud, regista e sceneggiatore, che si è ispirato al maestro del brivido Alfred Hitchcock (“La donna che visse due volte”) ma anche a una pellicola che nulla c’entra con i capolavori di Hitch:“Kramer contro Kramer”, resoconto emblematico di una crisi coniugale, dove, come accade nel film di Barraud, una madre segue il proprio istinto di libertà e rinuncia al proprio figlio.
“La doppia vita di Madeleine Collins”, le parole del regista
Antoine Barraud (al suo terzo lungometraggio) ci consegna un lavoro sofisticato che punta alla commistione di generi. Barraud è un regista interessante che ha come modello il cinema di Barbet Schroeder di cui apprezza l’eclettismo.
L’intento di Barraud era esplorare un personaggio femminile abile nell’arte del mentire: L’idea era di una donna capace di nascondere la sua tormentata vita privata attraverso il lavoro. Pensavo alle dinamiche scatenate da questo espediente. Una donna costantemente in movimento che viaggia avanti e indietro.
“La doppia vita di Madeleine Collins”, recensione e trama
Difficile e crudele, l’anti-eroina Judith. Mente, con faccia di marmo, alla figlioletta (pian piano si scopre la vera natura di quel rapporto madre-figlia). La bambina non riesce a stare senza la sua mamma e soffre terribilmente per le ripetute trasferte della donna.
Judith è la bionda glaciale e spudorata che avvolge il nastro della trama. Una trama che si scioglie adagio senza mai diventare del tutto cristallina. Judith è alla ricerca continua di identità nuove. Madre e, al contempo, moglie di due uomini agli antipodi: un aitante giovanotto svizzero senza grilli per la testa, un tipo dalla vita tranquilla, insomma, e un affermato direttore d’orchestra che frequenta i salotti buoni di Francia. L’uno che si nutre di lusso e fama, l’altro che s’accontenta di quel poco che il destino gli riserva.
Ma Judith chi è esattamente? E la Madeleine del titolo? Madeleine resterà un punto interrogativo per quasi tutta la durata del film e scopriremo cose di lei soltanto nell’ultima scena. Quanto a Judith: potremmo dire che è una ricca signora borghese, affermata professionalmente, che fa di tutto per plasmare una realtà a sua immagine e somiglianza. Gode, forse, a lambire le spire del rischio. Qualcuno la definisce mostro quando in preda a una crisi isterica, scapperà a tutta forza e fermerà l’auto in un bosco. Insieme a lei la figlia, strappata al padre, dopo una lite furiosa. Una sequenza che ricorda certi thriller pop americani.
“La doppia vita di Madeleine Collins” è un quadro a tinte fosche. Judith esibisce documenti falsi e ogni tanto si fa chiamare Margot. Ama il brivido e l’imprevedibile. E lo capiamo bene in un paio di scene eloquenti in cui sembra tentata di concedersi a un inquietante falsario malvivente dallo sguardo obliquo (interpretato dal regista Nadav Lapid). Judith si divide tra abiti da sera e morbide maglie casual. Imbastisce falsità per tenere in piedi un’esistenza spericolata e zoppicante, un castello di carta, che, alla lunga, diventa un macigno, e frana miseramente.
Judith: un giorno qui e uno lì. Judith, abile ricamatrice, resta imbrigliata nella sua stessa tela di ragno.
Quando la doppia vita è donna
Il doppio non è certo un tema originale da trattare, è antico quanto il mondo, ed è stato sviscerato ampiamente, e da sempre, in letteratura, al cinema e nel fumetto. Comunque, a proposito di bigamia e segrete vite parallele, una perla non può non sfuggire ai cinefili: un’audace, frizzante, commedia italiana degli anni Settanta diretta dal brillante Steno, il titolo è “Amori miei” (1978) e ci delizia con una lady alquanto intraprendente: si tiene a galla tra due mariti. Come Judith.
Protagonista di “Amori miei” è una superlativa Monica Vitti, affiancata da Johnny Dorelli ed Enrico Maria Salerno (nel cast anche Edwige Fenech). Monica Vitti veste i panni di Anna (meno enigmatica di Judith) che, di punto in bianco, stanca del tran tran, e di essere trascurata dalla dolce metà, sposa un altro, e continua, acqua in bocca, a vivere, felicemente, con entrambi. Siamo ovviamente lontani dai toni cupi di Madeleine Collins.