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Kadaver: l’ossessiva contemporaneita’ della maschera.

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E ‘ veramente e terribilmente contemporaneo il film Kadaver del regista norvegese Jarand Herdal. Contemporaneo nel senso più stringente di attuale, nel senso più urgente di messa in gioco di tutta una serie di significati, su diversi livelli, che tendono strepitosamente alle tante polemiche e interrogativi di questi giorni apparentemente dimenticati da Dio.  Ambientato in una cupa e tenebrosa  terra di nessuno, laddove i sopravvissuti ad un conflitto nucleare vivono in mezzo a rovine di antiche città e cadaveri  brancolando disperatamente per  qualcosa da mangiare. E’ un film horror che dimostra come non basti essere avvincenti per diventare automaticamente convincenti.  Non basta baluginare e scintillare di tanto in tanto per  illuminare. Ed è invero in questi brevi squarci di luce in mezzo al buio pesto che si scoprono comunque delle trappole di contemporaneità dilagante e avvincente, degli interrogativi-trabocchetto double-face in grado di mettere in crisi, forse, gli spettatori meno distratti.

Kadaver

A fare da vero  protagonista di Kadaver è la maschera,  finzione e realtà, nei suoi diversi piani di operatività sia interna alla trama che esterna, in senso lato; in senso generale e quotidiano. Dapprima la maschera opera da schermo di riconoscimento e segno di distinzione tra gli attori e gli ospiti-spettatori della strana rappresentazione che dovrebbe aver  luogo ed è questo un primo scambio, una prima inversione dei soliti ruoli prestabiliti  poiché la maschera viene fatta indossare agli spettatori .  La maschera come deterritorializzazione dei soggetti, esproprio dei caratteri fisiognomici dello spettatore ( pensiamo all’habituè casalingo e agli spettacoli televisivi per lui preconfezionati) ,  la maschera come segno di riconoscimento di vittima sacrificale in mezzo agli altri, agli agenti, agli attori. La maschera come antico simbolo di catarsi collettiva che era il significato originario e ancestrale del teatro antico, richiamo sacrificale al martirio e alla testimonianza del sacrificio, vestizione dell’io individuale in io sociale, globale, comunitario.  Il popolo è tutt’uno con l’Agnello che sarà sgozzato e decapitato, “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del Mondo”, liturgia sacrificale dietro alla quale sta il primitivo scambio di flussi tra l’uomo e la Divinità che da sempre vuole ripetersi in quello strano rito dalle origini forse orfiche che è il teatro. 

Kadaver

Non si tratta qui dell’operatività della maschera come nel celeberrimo Eyes Wide Shut  dove essa è parte del gioco erotico dell’anonimato. In Kubrick attraverso la maschera, per  e con la maschera, proprio in funzione della maschera (come il costume in Arancia Meccanica)  il flusso desiderante si libera dai canali precostituiti ed esplode in libertà. In Eyes Wide Shut la maschera assume la caratteristica di vessillo ludico, di costume attraverso il quale praticare e scambiare il gioco erotico grazie alle nuove libere e fantasiose canalizzazioni del desiderio  che per esso crea la segretezza data dalla maschera stessa.  In scena avviene il “miracolo” orgiastico e promiscuo dei flussi desideranti individuali che ognuno contribuisce ad alimentare e ad esprimere che si fondono  nel fiume primario e unico dell’abbandono sessuale.  Diversamente  in Kadaver le maschere sono la maschera, tutte uguali e sono ripetutamente riutilizzate, come utensili di un rito, come strumenti di omogeneizzazione e de-personalizzazione. L’uomo è carne e la carne è materia lavorabile,  mescolabile, macellabile,  consumabile.

Kadaver

A margine, didascalicamente, ben azzeccate in questo caso  contemporanee al cubo, Kadaver rivela figure schiettamente pratiche, cioè attinenti al mondo del manuale e materiale  tout court , che ricalcano, caricaturizzandolo, le movenze igienico sanitarie e infermieristiche di questi tempi congestionati, ambulatoriali. Sono figure rapide, concrete, prive di caratterizzazione alcuna, prive di profondità; fantasmi che si aggirano nei labirintici spazi di preparazione gastronomica. Il loro tempo è diverso dal tempo del film, vivono nella dimensione veloce del finire-un-lavoro-dopo-l’altro senza sosta, che è una dimensione anestetica, aliena, giustamente inquietante. Il loro spazio è quello di antri piastrellati asettici e monotematici ove il campeggiare di un decor gastronomico  ha funzione più che altro estraniante.

Vivere nel mondo delle maschere ove si partecipa a stento di una socialità frugale e “di-servizio”  (sembra fanta-realtà in realtà), vivere nella dimensione dell’individualità asettica, stimolata all’autoesclusione, alla domiciliazione; sopravvivere come comunità estetica, come Occidente in senso lato, a tutto questo può avere un senso?

Che senso potrà avere in un simile futuro tutto quello che non sarà arte solipsistica? Per  chi o  per cosa l’architettura? La scultura? L’urbanistica? La musica? La danza?  La parola del teatro? Cosa saremo disposti a fare per tenere in vita quello che è il collante della nostra cultura Occidentale, formatosi e stratificatosi nei secoli? Saremo disposti a cedere tutto pur di sopravvivere da soli? Avrà ancora un senso per l’uomo Occidentale creare redditi e prodotti lavorando che siano soddisfazione soltanto di stringenti necessità materiali e bisogni onanistici?  Ognun di noi si risponda ed agisca di conseguenza, senza maschera.

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