“Just Don’t Think I’ll Scream” è un saccheggio, un’espropriazione, un’anomalia del narrato filmico. Ma al contempo una dissezione emotiva intima che urla il senso di incompiutezza di una generazione intera.
Frank Beauvais scopre una forma di ebbrezza nella solitudine che, a poco a poco, si trasforma in vertigine. Sotto forma di un salvifico diario, il regista francese rovescia mente e anima in un unico disperato quanto feroce tentativo di redenzione. “Just Don’t Think I’ll Scream” è un fiume di parole in fuga, scritte perché la testa non può più contenerle, lasciate scorrere fuori perché possano trovare un ordine, uno scopo, o semplicemente smettere di accanirsi sulle ferite ancora aperte. Un diario che prende in prestito una quantità sterminata di immagini di altri film, altre storie, altre vite, per trasportare la voce di Frank Beauvais un po’ più in là, lì dove la sua solitudine inizia a salmodiare poeticamente al potere catartico dell’immagine in movimento.
Gennaio 2016. La storia d’amore che mi ha portato in questo villaggio dell’Alsazia dove vivo è finita sei mesi fa. A 45 anni sono solo, senza auto, lavoro o prospettive reali. La Francia, ancora sotto shock per gli attacchi terroristici di novembre, è in uno stato di emergenza. Mi sento impotente, soffoco di rabbia. Mi sono perso. Guardo da quattro a cinque film al giorno. Decido di registrare questa stagnazione, non raccogliendo una macchina fotografica ma modificando le riprese dal flusso di film che guardo.
“Just Don’t Think I’ll Scream” è da intendersi come la celebrazione avanguardista del mezzo cinematografico o come l’autobiografia di un uomo che fagocita l’arte altrui? Il documentario di Frank Beauvais è tutto questo, ma anche molto altro. Un numero infinito di scene di altri film utilizzate per animare un flusso di coscienza in pieno svolgimento che tratteggia i dissidi interiori del soggiorno depresso del regista nella campagna francese. Immagini originariamente volte a narrare altre vite ridotte qui a dettagli di cui è quasi impossibile identificare la provenienza, sino a quando non scorrono gli epifanici titoli di coda.
Più di 400 film divorati tra aprile e ottobre 2016
Le immagini dei circa 450 film divorati da aprile a ottobre 2016, divenute preda di un cacciatore schiacciato dalla depressione, grazie ad un lavoro di montaggio virtuoso, attribuiscono significato al racconto eccezionalmente ben scritto narrato in voce off. Il risultato è un’opera che pur macchiandosi del peccato originale di non poter vantare nemmeno un minuto di girato sa essere personale, onesta e urgente. Esattamente tutto ciò che l’arte non dovrebbe mai smettere di essere.
Così è un po’ come restare a fissare l’orologio mentre si sta sperimentando il reale scorrere del tempo. Così come guardare “The Clock” di Christian Marclay (il brillante montaggio di esattamene 24 ore di immagini del tempo raffigurato nel cinema, che lo spettatore può anche guardare, in qualsiasi momento, per conoscere l’ora esatta). È con la stessa puntualità e con il medesimo ingegno che l’uomo disperato trovandosi nell’oscurità di un isolamento auto inflitto si domanda se la sua “attrazione fatale per i film eretti come un baluardo estetico contro la bruttezza del mondo” non nasconda un’insana costruzione machiavellica per giustificare la sua cinefilia.
In un “bel posto isolato” dell’Alsazia, dove gli spostamenti degli abitanti sono indagati da dietro le tende dai vicini, Frank Beauvais sopravvive vendendo dischi, DVD e libri su Internet. Una storia d’amore da poco conclusa lo ha ferito abbandonandolo in posto in cui non ama vivere, circondato da persone con cui non vuole entrare in relazione. A non piacergli molto in realtà è l’umanità intera, quell’umanità che di umano vanta solo il nome, che non possiede senso di collettività né tolleranza. Ogni giorno si nasconde dentro a tre, quattro o cinque film. “Sprofondo letteralmente nei film degli altri, perdo ogni desiderio di scrivere, di filmare, di fare altro. Il nido diventa nicchia, rifugio, prigione. E questi film degli altri non sono altro che specchi, non finestre“.
“Just Don’t Think I’ll Scream” e l’isolamento auto-inflitto
In “Just Don’t Think I’ll Scream” c’è repulsione verso se stessi e disgusto per il mondo. Ci sono impotenza, angoscia, solitudine. Ci sono gli echi lontani di notizie da un mondo che continua ininterrottamente a muoversi verso la deriva, e i volti amichevoli di passaggio che illuminano l’oscurità come fantasmi imprigionati nelle tue stesse mura. E infine c’è la possibilità di tornare a vivere a Parigi l’autunno successivo. Una possibilità che trasforma le prospettive dell’orizzonte prossimo, senza spezzare le catene del vincolo ombelicale che ti lega alle ombre che ti abitano dentro.
Beauvais dice: “sono un adulto instabile incompiuto”. E un cappio oscilla sullo schermo. La desolante solitudine del regista è descritta dalla sua stessa voce, a tratti in piena corrispondenza, a tratti con ironico contrasto rispetto a quel che si vede. Le immagini ci propongono sempre dei particolari, porzioni di spazio, oggetti, raramente figure umane, spesso di spalle, come a costruire una frastornata e allucinogena soggettiva, continuamente interrotta, ma incessante.
Dalla perdita del padre, all’abbandono del compagno, fino al brioso voltastomaco provato per le masse pigre e manipolabili, Frank Beauvais non ci nasconde nulla. In 75 minuti veniamo a conoscenza di ogni suo vertiginoso pensiero. Di quell’irrefrenabile passione per un attivismo politico per cui si ritiene troppo vecchio, di quell’attrazione per i film erotici scandinavi, di quell’ appassionata approvazione per gli eroi dei film sovietici. Perché loro sognano e producono, mentre l’eroe occidentale consuma. Consuma e basta.
Un film personale e onesto che non perde d’efficacia comunicativa né di autenticità emotiva nemmeno quando il discorso si allarga al contesto storico: agli attentati di Nizza, al terremoto nel Centro Italia, alle tragedie vissute dai migranti. I racconti di ciò che accade fuori, lontano o vicino alle mura che lo tengono nascosto, ingabbiato, falsamente al sicuro, nel nulla, vicino al confine con la Germania, non fanno che evidenziare la permeabilità delle celle contemporanee. Celle in cui tutto continua ad entrare violentante, nonostante si stia implorando al mondo di restare fuori.
“Just Don’t Think I’ll Scream” e le distanze che si annullano
Finestre, chiavi, occhi, orologi. Sono questi i simboli di questo diario di pensieri aggrovigliati con immagini a prestito. In un incessante avvicinarsi e allontanarsi tra ciò che si vede e ciò che si sente, le distanze tra film realizzati a un secolo di distanza si annullano. Il racconto del presente, di quei mesi di sofferenza e sospensione, si mescola indissolubilmente con i fatti del mondo. Ci sono gli attacchi terroristici all’aeroporto di Istanbul e a Nizza, ci sono la morte di Prince e la canonizzazione di Madre Teresa. Ma soprattutto c’è la paura. Della tirannia, della sopraffazione, della polizia, dell’economia. E nel frattempo ci sono i film e le riflessioni sul cinema, sul perché guardarlo, sul perché farlo. Sul significato di questa dedica inquieta, immaginata e realizzata tra amore e ossessione.
Frank Beauvais sogna da sempre una rivoluzione. Lui che però non ci crede più. Lui che forse non ricorda nemmeno cosa significasse aspirare alla rivoluzione, ora che forse, anche se riuscisse a ricordarlo non avrebbe più il coraggio di prendervi parte. La sua è una generazione venuta a patti con l’indifferenza, attratta dall’attivismo ma al contempo pronta a puntare il dito quando il movimento diventa troppo violento; una generazione che si trascina, in cui la cosiddetta maggioranza procede per inerzia, in cui si è scelto di non scegliere da quale parte stare.
Il potere del montaggio e la rivelazione dei titoli di coda
Tra pinku eiga, gialli italiani e soviet films, grazie anche al perfetto montaggio di Thomas Marchand, ogni singola scena si interrompe, o meglio dà inizio a quella successiva, sempre un attimo prima del riconoscimento. E mentre lo spettatore si strugge, desideroso di consolarsi rifugiandosi insieme all’autore nei meandri del cinema goduto, amato e noto, il regista recide ogni sua speranza appena un frame prima della confortante epifania. Solo i titoli di coda finali svelano la soluzione alle frustrazioni sollevate dal lungometraggio fornendo l’elenco dei film trasformati in autobiografia divoratrice. La visione compulsiva ha riguardato oltre 400 film di ogni annata, regista, genere e provenienza geografica.
Just Don’t Think I’ll Scream, richiamando alla memoria “Historie(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard, ri-afferma lo stra-potere del Cinema tra le arti: quello di saper trascendere il valore dei singoli film, e di farsi sostanza del loro ricordo. Un memoria che può essere traccia o cicatrice, reminiscenza o monumento, a seconda di come si mescola con l’esperienza del vivere, in un qui e ora che è già passato.
Frank Beauvais, tra misantropia depressiva e iper-lucidità, prostrato da una cinefila tanto meravigliosamente onnivora quanto dannosa, riesce nell’offrire immagini e parole ad una generazione disillusa e incompiuta.
Viene naturale domandarsi, ora che l’isolamento di cui parla in “Just Don’t Think I’ll Scream” ci è stato inflitto dal distanziamento pandemico, se ci si è dimostrati abili allo stesso modo di sfruttare il nostro tempo per fabbricare la nostra medicina. Abbiamo combattuto i nostri demoni? Anche noi ricorremmo al furto di immagini per raccontare il disagio interiore esperito durante l’isolamento? Quali scegliremmo? E soprattutto a quei demoni abbiamo conficcato un paletto nel cuore o sono loro ad averci annientato?