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Inside Man

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Cosa deve fare, oggi un regista per definirsi davvero un autore? Domanda difficile se posta in un contesto cinematografico come quello attuale, dove si rischia poco e in generale non si ha granché voglia di raccontare storie davvero nuove, provando magari anche a far proprie e trasformare le regole di un genere ben specifico. Un autore è prima di tutto questo, un artista in grado di raccontare una storia (che sia estremamente originale o meno) con la sana sfrontatezza di chi dà l’impressione di saperla raccontare, senza doversi aggrappare con forza alle regole dei grandi maestri del passato.

Un autore del cinema contemporaneo è senza dubbio Spike Lee. Ma, contrariamente a quanto spesso si legge, il suo grado di mostro sacro se l’è conquistato non solo con i suoi film più intimi e personali, ma anche con un titolo come Inside Man, del 2006. Esattamente come il geniale rapinatore del suo film apre la pellicola con un monologo con tanto di sguardo in camera dicendo che il movente che l’ha spinto ad agire, oltre alle ovvie motivazioni economiche, è il fatto che è in grado di farlo, Spike Lee sembra dire allo spettatore che il motivo che gli ha permesso di realizzare Inside Man è che lui lo sa fare un film del genere.

Inside Man

La pellicola è il primo film davvero di genere diretto dal regista di Atlanta, connotandosi come un vero e proprio heist movie. La vicenda attorno a cui si sviluppa tutta la narrazione è infatti una rapina ad una prestigiosa banca di New York. Il colpo è stato concepito e messo in atto da Dalton Russell (Clive Owen) ed è minuzioso fino al minimo dettaglio, tanto da poter essere definito come praticamente perfetto. L’uomo entra nella banca vestito da imbianchino, insieme a quattro complici, mette fuori uso le telecamere di sicurezza e prende in ostaggio tutti i malcapitati presenti nella hall, facendoli abbigliare come i rapinatori. In questo modo riesce nel duplice compito di tenere sotto scacco e di confondere la polizia, capeggiata dall’abilissimo detective Frazier (Denzel Washington), che parla di continuo al telefono con Russell ma non riesce mai veramente a comprenderne il pensiero e ad anticiparne le mosse.

A completare la già cervellotica vicenda ci pensa il ricco banchiere (Christopher Plummer) proprietario dell’edificio assediato, che sembra preoccupato più che della possibile vastità del colpo e dell’incolumità dei suoi dipendenti, di veder mantenuto un segreto a lui estremamente caro. Ingaggia così l’esperta di relazioni internazionali Madeline White (Jodie Foster), al fine di impedire che chiunque, polizia compresa, possa scoprire e rendere pubblico quel mistero.

Inside Man

In gioco non c’è dunque solo un’enorme quantità di denaro, costante imprescindibile per ogni film di rapina che si rispetti. A farla da padrone in Inside Man diventa ben presto il passato, che, per quanto tu possa scappare lontano, ritorna sempre a galla, a farti pesare i tuoi peccati. Il geniale rapinatore diventa così la rappresentazione cinematografica del destino che bussa alla porta con forza e che non ha fretta a ritornarsene nell’angolo oscuro del passato da dove è improvvisamente riemerso. Tra le tante frasi ad effetto che sentiamo pronunciare da Russell, grande oratore prima che astuto fuorilegge, ce n’è una che più di tutte ne denota l’indole: “Le cattive azioni puzzano di fogna, puoi cancellarle, seppellirle ma non te ne libererai mai”. Ecco che allora forse un reato come una rapina in banca può trasformarsi quasi un’impresa epifanica in grado di far capire a tutti quali misfatti si celino dietro alle sovrastrutture dominanti e imprescindibili della società odierna.

Proprio per questo il rapporto che si crea tra lo sbirro e il ladro non è canonico in Inside Man. Il detective Frazier è chiaramente affascinato da quell’uomo misterioso che tanto sta facendo ammattire i suoi colleghi, e la dimostrazione la dà stando al suo gioco, parlando al telefono con lui e non solo di quella situazione, ma anche della sua vita privata, quanto mai complessa e piena di dubbi.

Inside Man

La sceneggiatura, firmata da Russell Gerwitz, è eccezionale nella resa sullo schermo proprio di questi due personaggi, veri mattatori della pellicola non solo per il numero di battute che pronunciano. Dalton Russell non è un violento, ma un uomo che vuole dare una scossa alla sua vita e abbandonare tutto. Per farlo necessita però di tanti soldi. Frazier è un detective in ascesa, che vuole raggiungere il massimo grado nel suo lavoro forse per ovviare all’incapacità di cementare i rapporti personali nella propria vita privata. Il fatto che non voglia sposare la propria compagna non sembra solo determinato dall’alto costo dei diamanti, come Frazier più volte ripete nel corso del film, ma anche da un’indolenza di fondo che gli fa sempre preferire la stabilità al mutamento. Sono due uomini alla ricerca di qualcosa di meglio. Il fatto è che, proprio per perseguire i propri obbiettivi necessitano inevitabilmente del fallimento dell’altro e ciò rende il loro rapporto veramente avvincente. Si stimano ma non possono farlo fino in fondo. La vera grande differenza tra i due è che il rapinatore è certo di riuscire nel suo intento, mentre il detective procede per intuizioni, riscuotendo sempre meno credibilità agli occhi di colleghi e superiori.

Paradossalmente (ma poi nemmeno così tanto) il poliziotto appare più ben disposto nei confronti di Russell che della stessa dottoressa White, sua collega imposta dal sindaco ma mai veramente utile alle indagini. La donna ha come compito professionale quello di dar manforte ai misteri che deve proteggere e perciò è solita mentire e in generale non dire mai le cose come davvero stanno. Ciò la rende a tratti insopportabile agli occhi del detective, che avrebbe senz’altro vita più facile se la donna lavorasse con lui e non parallelamente a lui. La sua segretezza professionale, guardata sempre con sospetto, va in netto contrasto con l’autenticità di Frazier e persino di Russell, creando una vertigine piacevolissima e intrigante che lo spettatore non può fare a meno di accettare. A tutte le domande che il film pone (numerosissime) lo spettatore non riesce a dare risposte convincenti se non quando si è concluso tutto il film, non solamente la rapina.

Inside Man sembra in questo senso una matrioska: ogni personaggio che viene introdotto avrà un ruolo essenziale ai fini drammaturgici. Si parte dal grande, dall’evidente, per arrivare al piccolo, alla sottigliezza apparentemente marginale, ma in realtà decisiva.

La poetica di Spike Lee però non è affatto oscurata dalla natura di genere del film. Non mancano i riferimenti alla piaga del razzismo negli Stati Uniti, vera costante dei suoi film, per lo più con battute veloci e brevi ma estremamente pungenti. Il detective ha il volto di Washington, alla quarta partecipazione assoluta in una pellicola diretta dal regista.

Anche nello stile della direzione Inside Man è un film tipicamente leeiano. I movimenti di macchina sono quasi sempre inconsueti e particolari, e raggiungono il picco della “stranezza” quando il regista fa sedere Washington direttamente sul carrello facendo sì che lo spettatore lo veda avvicinarsi senza che cammini. Altrettanto emblematica è la scena iniziale, dove vediamo Clive Owen in primo piano che, con un monologo quasi shakespeariano, catapulta lo spettatore all’interno della vicenda guardandolo negli occhi, con uno sguardo in camera veramente coinvolgente. Anche nella costruzione di certe scene non passa inosservata la poetica di Lee. In moltissime scene assistiamo ad un uso spropositato delle parole, tanto che spesso gli stessi discorsi appaiono fuori luogo nel contesto in cui sono inseriti. Così quello che doveva essere un semplice rapporto, di fronte alla porta sbarrata dai rapinatori, e quindi in una situazione di pericolo,  di un poliziotto al detective si trasforma in un discorso da decine di battute, assolutamente poco credibile ma non in disarmonia con il tono generale del film e della sceneggiatura. Ciò non significa che Lee non conosca la materia di cui si sta occupando, tanto che è lampante il debito che Inside Man ha nei confronti di importanti film di rapina del passato. Su tutti spicca Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet del 1975, non tanto per le motivazioni, più virtuose nel film del 2006, quanto per la messa in scena e le istanze narrative che propone (rapina, assedio della polizia ecc.).

D’altra parte stiamo parlando di Spike Lee, un vero autore che, anche in un film di genere, non può fare a meno di distinguersi dai semplici (lodevolissimi) professionisti dietro alla macchina da presa.

Roby Antonacci
Roby Antonacci
Giornalista per Vanity Fair, collaboratrice per Moviemag, scrivo da sempre di cinema con un occhio attento a quello d'autore, una forte passione per l'horror e il noir, senza disdegnare i blockbuster che meritano attenzione.
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