È impossibile non provare una particolare sensazione di disagio e smarrimento durante (e anche dopo) la visione dei film di David Lynch (Mullholland Drive).
Sin dall’inizio della sua attività artistica, Lynch rappresenta l’emblema del surrealismo e della creatività: tutta la sua produzione è caratterizzata dalle costanti del sogno, della decostruzione della realtà e del grottesco. Queste categorie estetiche accompagnano lo spettatore in un viaggio introspettivo molto profondo.
A differenza dei prodotti filmici dei quali siamo soliti usufruire, i film di Lynch non hanno come obiettivo il dispiegamento di una trama lineare. Inland Empire rappresenta esattamente la mancanza di un senso logico rispetto a ciò che siamo soliti aspettarci dai film.
Ciò che conta non è la razionalità (che viene volutamente archiviata e posta in secondo piano) ma le immagini, i suoni, le espressioni dei volti e le emozioni scaturite da questi elementi estetici. La trama non è del tutto assente, ma rimane su un piano molto più debole rispetto alla centralità delle immagini, luci, suoni e musica, ritenuti i punti cardine della percezione sensoriale.
L’approccio trascendentale per capire Lynch
Dal punto di vista estetico, durante la visione di un film di Lynch, è molto importante avere un approccio empirico e in qualche modo “trascendentale”.
Così facendo, risulta più semplice captare i simboli e i significati nascosti, lasciati volutamente all’interpretazione dello spettatore. David Lynch si porta dietro sin dalla sua prima produzione, il lungometraggio Eraserhead – La mente che cancella, la fama di regista provocatorio, che non ha paura di mettersi completamente a nudo né di turbare.
Anzi, forse è proprio questo uno dei suoi obiettivi: innestare nello spettatore un meccanismo psichico che ha a che fare con l’inquietudine, con il turbamento e con lo straniamento, suscitati da un notevole impatto emotivo.
Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio. (David Lynch)
Inland Empire: l’impero della mente di ognuno di noi
Il film più estremo che Lynch abbia mai creato (si tratta di un creativo a tutti gli effetti: oltre ad essere un regista è anche un pittore, scultore, musicista e tante altre cose…) è Inland Empire – L’impero della mente.
L’impressione immediata, subito dopo aver terminato la visione del film, è di estremo sconcerto. Già la traduzione del titolo in italiano, L’impero della mente, ci suggerisce una collocazione che ha a che fare con i meccanismi del nostro cervello, con l’inconscio e tutto ciò che ruota intorno ad esso.
Attraverso la proiezione dei fotogrammi, lo spettatore compie una sorta d’identificazione, a livello inconscio, con le storie del proprio vissuto, dei fantasmi del passato che ognuno di noi ha dentro il proprio armadio e delle proprie paure. Lynch è un autore molto provocatorio che ama rappresentare le principali emozioni e sentimenti umani, ad un livello di esasperazione non poco rilevante: ecco che la paura, la violenza, il sesso, l’ironia, l’ amore e la morte assumono forme poliedriche davvero molto forti dal punto di vista dell’impatto emotivo che suscitano.
L’anti convenzionalità di Inland Empire
Un’immensa Laura Dern ci regala una performance senza precedenti: nonostante l’attrice sia stata utilizzata in numerosi film di Lynch, in Inland Empire le sue particolari espressioni del volto, caratterizzate dall’ambiguità e dalla curiosità estrema, colpiscono lo spettatore in modo inequivocabile.
Inland Empire è il primo film di Lynch girato in digitale e dura quasi tre ore (è il film più lungo dell’autore). Questi due elementi hanno portato la critica ad adottare due strade diverse: c’è chi sostiene che sia un film senza alcun tipo di filo logico, totalmente incomprensibile e chi invece tenta di scovare un senso più profondo in questo lungo montaggio di immagini, apparentemente scollegate tra loro.
Si tratta di un film impossibile da spiegare razionalmente, poiché, come ogni film di Lynch, il messaggio va oltre la trama, sfondando in maniera irruente la quarta parete. Questo è il principale fattore di disturbo per uno spettatore abituato a guardare film convenzionali. L’anticonvenzionalità di Lynch è ciò che lo contraddistingue all’interno del panorama cinematografico.
Inland Empire: Il tempo distorto
Oltre agli intrecci – apparentemente privi di alcun senso – tra diverse storie ambientate a Los Angeles, ciò che balza all’occhio in Inland Empire è il fattore tempo: la dimensione cronologica assume una forma fluida ed evanescente, i continui salti temporali confondono e incuriosiscono allo stesso tempo e, come in tutti i film di Lynch, le dimensioni dell’inconscio e del sogno fungono come unici fili rossi ai quali provare ad aggrapparsi.
Primissimi piani di donne che piangono rappresentati attraverso una lente grandangolare distorta, stanze (della mente?) dove abitano conigli vestiti da esseri umani appartenenti a una sit-com, donne in pericolo accompagnate da suoni disturbanti e una colonna sonora formidabile, in linea con il senso d’inquietudine trasmesso.
Questi sono i principali elementi di scomposizione del film, che rimane tuttora il prodotto cinematografico più provocatorio ed estremo che Lynch abbia mai creato.
Uno sguardo sull’autore
Classe ’46, amante della natura e delle montagne misteriose del Montana dove è cresciuto da bambino, il regista ha traslato la propria percezione della realtà nelle sue creazioni artistiche, a volte distorcendole, a volte rendendole colorate e adattabili alla mente di chi ne usufruisce.
Questo capolavoro astratto e complesso rappresenta l’apice della cripticità di David Lynch. Il film diventa uno strumento di riflessione sulla realtà interiore di ognuno di noi. Così, attraverso la lente d’ingrandimento fornitaci da Inland Empire, è possibile focalizzarsi su interrogativi esistenziali ed interpretazioni molto diverse tra loro, che scaturiscono da essi. Forse sono proprio queste le due finalità più profonde di quest’opera magistrale.
Dunque, il segreto per non addormentarsi durante questo film così lungo e difficile, è quello di spogliarsi di ogni preconcetto convenzionale, lasciar perdere la linearità narrativa alla quale siamo abituati e abbandonarsi totalmente alla visione di un’esperienza di surrealismo sperimentale, senza smettere mai di interrogarsi e di dare da bere alla propria curiosità.