A Cannes Miguel Gomes ha ottenuto il premio per la miglior regia con il suo ultimo film, Grand Tour. Una storia d’amore, ma anche una riflessione politica, come sempre accade nella filmografia del regista portoghese. Gomes, infatti, porta avanti un discorso profondamente politico, spesso storicamente situato, com’è ben visibile già in Tabu, film del 2012. E proprio come in Tabu, anche in questo caso, sullo sfondo – neanche troppo – di una storia di sentimenti c’è il colonialismo.
Grand Tour: trama e cast
Il Grand Tour era un’attività che i giovani eredi di importanti famiglie europee compievano nelle capitali del continente prima della Prima Guerra Mondiale. Gomes si appropria di questo nome, ne modifica il concetto e sposta l’azione. Siamo nel 1917 e in quella che si chiamava Birmania, colonia britannica, e più precisamente a Rangoon, si trova Edward (Gonçalo Waddington), impiegato. Il ragazzo è in attesa della compagna Molly (Crista Alfaiate) con cui si dovrebbe sposare dopo sette anni di fidanzamento. Dovrebbe perché, proprio mentre la ragazza sta per raggiungerlo, Edward si dà alla fuga, non più certo delle proprie scelte. Si mette così in viaggio, prima in nave, per arrivare a Singapore, successivamente a Bangkok.
Dai telegrammi che Molly continua a inviargli si scoprono suoi ulteriori spostamenti, senza una meta precisa. Un viaggio che lo porterà a finire anche nella giungla per colpa del deragliamento di un treno. La seconda parte del film racconta, invece, la storia dal punto di vista di Molly. Questi giunge a Rangoon e si mette sulle tracce dell’uomo, convinta che la ami ancora. Ma anche il viaggio della giovane donna subirà delle battute d’arresto e come quello di Edward sarà costellato di incontri interessanti. Anche in Grand Tour, come in altri suoi film, Gomes spezza il racconto con sequenze a colori che nulla (o quasi) hanno a che fare con la trama.
Grand Tour: la recensione
Gomes conferma di essere tra i registi contemporanei uno di quelli che maggiormente si trova a suo agio con l’uso del bianco e nero. Anche in Grand Tour, infatti, la scelta cromatica incide sulla riuscita – ottima – dal punto di vista fotografico e registico. Tutto nel cineasta portoghese richiama alla sua dimensione di critico e teorico, ancor di più: di studioso del cinema. È per questo che non è raro trovare sequenze che richiamano direttamente ad una forma di cinema che sembra venire direttamente dagli anni ’30 del secolo scorso. Ma Gomes si è distinto nel corso degli anni per un cinema che alla forma ha sempre accompagnato una sostanza forte, vivida e marcatamente politica.
Così, in questo inseguimento d’amore, in questa vera e propria Odissea dei due personaggi, si moltiplicano i livelli delle riflessioni. Edward è l’uomo del tardo colonialismo, incapace di un atto di coraggio e abile solo a darsi alla fuga. Sembra in un certo senso esserci un filo dialogico che lega questo protagonista a un altro emblema del cinema sul colonialismo di recente produzione: Zama. Proprio come nel film di Lucrecia Martel l’uomo si sente forte solo quando le condizioni lo permettono, ma si rivela, infine, pavido. Gomes decide di affiancare a questo personaggio un carattere femminile che proviene dallo stesso contesto che è quello di Molly. Ma la donna finisce per rompere quel discorso, per squarciare questo velo e progredire nella costruzione psicologica nel corso del film.
La forma del racconto e l’immagine
In sé, quindi, Grand Tour non presenta elementi sostanziali che non siano già stati affrontati nel corso della storia del cinema o della letteratura. Lo stesso regista si è già confrontato col tema del colonialismo con il già citato Tabu. Miguel Gomes emerge per la capacità di legare a doppio filo la riflessione sugli argomenti alla pura bellezza formale. Sfugge alle dinamiche produttive contemporanee attraverso scelte che sembrano affondare nel passato prossimo della storia del cinema, ma che risultano innovative nel contesto. Gomes non è però mai solo formale, le scelte su quel piano corroborano la storia stessa. L’impostazione del film richiama a un diario che tra immagini e suoni, voci e rumori anche in contrasto alla vicenda, si distende per tutto il film. Anche il finale, nel suo restare in bilico, richiama a un diario su cui la protagonista smette improvvisamente di scrivere.
Oltre agli evidenti richiami al cinema classico cui Gomes mai si sottrae, possono istituirsi per il regista portoghese altri importanti paragoni. La visione di questo film porta con sé un sentore di un cinema che viene dall’altra parte d’Europa rispetto al Portogallo, ovvero la Finlandia. Perché c’è qualcosa di soggiacente che sembra provenire da Kaurismaki nel film e forse nella cinematografia intera del cineasta. Sarà l’uso, mirabile, del bianco e nero o una tematizzazione politica che risulta sempre più rarefatta nel panorama cinematografico. Si può affermare che Gomes rappresenta un nuovo punto di riferimento del cinema europeo, che dalla ricerca di un’identità è passato all’affermazione di identità molteplici. Si tratta spesso di registi che guardano alla storia più o meno recente del cinema, che si muovono in bilico tra il citazionismo e il rinnovamento delle forme.