Favolacce

La fiaba è il luogo dei se: se si potesse volare, se si potesse fuggire, se gli orchi si potessero sconfiggere. La fiaba è la casa di tutte le ipotesi, pronte a rivelare l’accesso ad altri mondi o a mettere sotto chiave l’incubo, per sempre. Tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dell’angoscia, diceva Kafka. E le “favolacce” di questo film hanno avuto origine proprio lì, nel ribollire dell’insoddisfazione, nel desiderio di conficcare il pugnale al cuore della soffocante mediocrità.

Cosa possono raccontare le favole se a leggerle prima di addormentarsi è qualcuno di annoiato, svilito dalla quotidianità, con nessuna immaginazione per ipotizzare un altro finale? Questa storia la si legge su di un diario, scritta con una penna verde, come se non volesse essere presa sul serio. Eppure c’è qualcosa di misterioso in quelle parole, di insano, di assente. Di quelle assenze che urlano, che fanno rumore, che attraggono persino. E così si finisce per tormentarsi fino all’ultima pagina. Per scoprire che nessun epilogo è stato scritto per noi. Forse perché l’incubo dal quale vorremmo risvegliarci non è ancora finito.

“Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo è una favola a cui manca una morale, a cui non è stato scritto un epilogo, a cui forse non equivale nemmeno una storia vera e propria. La narrazione procede confusa, mentre la telecamera si immerge e poi si apparta, inerte e nascosta, fiutando un pericolo autentico partorito da quella realtà simulata. In “Favolacce” c’è molto di non detto, e molto che implora di essere capito. Un film feroce, acuto, immaginario e tangibile. È “cinema di poesia” come direbbe Pasolini. Un linguaggio cinematografico disgregato che costruisce storie e distrugge vite per raccontare le ferite di un’umanità alla deriva.

favolacce
Elio Germano interpreta il padre di famiglia Bruno Placido.

Questa è l’opera seconda dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Dopo la caduta nell’abisso della periferia romana ne “La terra dell’abbastanza”,ora siamo pronti per immergerci in un’altra storia infernale, in cui si respira a fatica. Il cinema di “Favolacce” è fatto di volti appesantiti dall’avvilimento e di corpi sciancati dalla mortificazione, di smorfie e istinti che non si possono reprimere, perché il mostro della mediocrità sta riaffiorando. E nessuno riesce più a nasconderselo dentro.

“Nella periferia di Roma, vive una piccola comunità di famiglie che trascorre le sue giornate in maniera apparentemente normale, tuttavia, sotto la superficie, cova il sadismo dei padri, la passività delle madri e la disperazione dei figli”. È questa Spinaceto, luogo di villette a schiera abitate da pigre consuetudini familiari, di cene consumate fuori, in giardino, in vetrina, per dimostrare di saper saziare la propria insoddisfazione con barbecue e monotonia. Luogo in cui si declamano le pagelle scolastiche impeccabili, in cui si critica aspramente l’operato dell’insegnante, in cui non si ammette la miseria che divora da dentro, in cui i figli crescono desiderando solo di scomparire.

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Le villette colorate e cordiali di Spinaceto sono state costruite in mezzo al nulla, le circonda una vegetazione lussureggiante, che sembra poterle inghiottire tutte, da un momento all’altro. Forse sta solo attendendo che questa cupa favola termini di essere raccontata. Di fatto si tratta di un luogo immaginato, che riemerge dalle pagine di un diario ritrovato, scritto da una bambina e bruscamente interrotto, senza apparente ragione. Un quartiere sgualcito, illuminato da un sole pallido e innaturale, inumidito dal sudore dei suoi personaggi. A ritrovare quelle pagine, e forse ad immaginare quel gruppo di case ordinariamente borghesi e straordinariamente inospitali, è un narratore qualunque (Max Tortora).

Le pagine del diario sospendono per un momento la noia di una torrida estate, l’ozio mitigato dai Guerin Sportivo e dal calcio mercato. Giusto il tempo per lasciarsi turbare da una storia dai molti personaggi, di cui ricorderemo poco le gesta ma non dimenticheremo mai i volti. Un po’ come accade dopo il risveglio da un vivido e confuso incubo.

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Dalle pagine del diario fanno capolino Dennis (Tommaso Di Cola) e la sua famiglia. Bruno (Elio Germano) è un padre alla dissennata ricerca di una qualsivoglia realizzazione: lo vedremo trasfigurato dalla frustrazione, abbandonarsi alla violenza, crogiolarsi nella mediocrità, come fosse una punizione da auto imporsi. Tra gli amichetti di Denis e della sorellina c’è Viola (Giulia Melillo), la bambina con difficoltà di apprendimento, quella a cui verranno rasati i capelli a causa dei pidocchi, a cui verrà assegnata una parrucca alla Mia Wallace. Un evidente involucro di falsa normalità che la bambina accetta di far camminare per le strade del quartiere, come se quella testa non le appartenesse.

C’è anche Geremia (Justin Kurovnin, già visto nell’horror italiano “The Nest”), che vive con il padre Amelio (Gabriel Montesi) in una baracca, al confine fra il “perfetto” quartiere e il nulla. Si ammala di morbillo, parla poco e preferisce non rispondere agli sproloqui di un genitore che lo vorrebbe già adulto, con impulsi animaleschi e sessuali come i suoi. Forse è quel vivere ai margini, quell’abitare nell’incubo ma avere casa ad un attimo dal risveglio, che potrebbe salvarlo. Non sappiamo con chiarezza se Geremia, con il suo aspetto gracile e questo nome biblico, sarà in grado di uscire dalle favolacce di quel diario disperato, ma sicuramente è l’unico a cui viene concesso un briciolo di speranza.

Giulia Melillo interpreta Viola

Gli adulti in “Favolacce” sono orchi che si nutrono dell’innocenza dei loro stessi figli, che nascondono i graffi della frustrazione sotto cerotti di apparenze. Questi mostri desiderano che i bambini crescano velocemente, vogliono divorare la loro castità, suggerendo implicitamente di emularli nelle loro abitudini sessuali, nelle loro desolati routine, quasi fossero invidiosi del loro candore, ansiosi di farli sguazzare nel medesimo guano di insofferenza. Il rancore dei loro figli matura alla luce del sole, senza destare sospetti. Senza che qualcuno comprenda che il desiderio di far esplodere tutto non è già più solo nella loro testa, si trova sul tavolo della loro scrivania, e ha iniziato a ticchettare da un po’.

 “Favolacce” è un gruppo di brutte storie, non una sola. Sono molte le voci che risuoneranno alle nostre orecchie, molte le menti che ci sembrerà di attraversare. C’è qualcosa di sinistro in quel canto di cicale che non smette mai, in quel caldo afoso che non accenna a diminuire: c’è qualcosa di terribile che sta per accadere, che intuiremo essere accaduto mentre la telecamera si sposta su di un sudato e sommesso pianto di disperazione e vergogna.

È nelle fisicità tese, storpiate, sovraccariche di inquietudine che possiamo comprendere l’essenza di questa pellicola. Merito delle eccezionali interpretazioni degli attori, adulti e non. Gli adulti hanno i nervi a fior di pelle, non riescono più a trattenere volgarità e disperazione. E mentre le vene dei genitori non smettono di pulsare nelle tempie, i figli si mostrano timidi, arrendevoli, come agnelli sacrificali già consapevoli della fine del mondo.

La fotografia è di Paolo Carnera, così come lo era per “La terra dell’abbastanza”, ed è perfetta nel farci apparire questa favola cupa come un sinistro miraggio apparso per caso davanti ai nostri occhi. Peccato per l’audio in presa diretta che costringe il pubblico a sforzarsi parecchio per cogliere alcune battute. Tuttavia “Favolacce” è un film anti-narrativo, ed il suo realismo imperante non sembra necessitare di parole precise. Ciò che deve sentirsi distintamente è solo la mancina cantilena di morte sul finale. E quella suonerà per voi ben oltre la visione.

“Favolacce” richiama il potere narrativo della tragedia classica, portando con sé, in un viaggio verso l’abisso, un amuleto fatto di cinema allucinato e surreale. Nessuna inquadratura è scontata, la telecamera non è mai posta laddove ci aspetteremmo: se ne sta sopra di un ramo e da lì osserva la cena apparentemente tranquilla della famiglia Placido, oppure si immerge nell’acqua del mare per osservare lo svago domenicale delle benestanti famiglia del quartiere. Fissa con morbosità i volti e si paralizza su oggetti insignificanti: quelli di un mercatino dell’usato, o quelli di un abbigliamento un po’ troppo volgare per un quartiere di tutto rispetto come quello. A volte perde il fuoco, altre desidera ritrarre quella realtà da una prospettiva distorta.

Non si vuole nemmeno per un attimo che lo spettatore dimentichi che nulla è come sembra, e che sarebbe meglio smettere di leggere le pagine di quel diario, perché ogni incubo, se ricorrente, può diventare realtà.

È triste che questo racconto intriso di disperazione e poesia non approdi sul grande schermo di una sala cinematografica. Perché è uno dei migliori film dell’anno, anzi di questi molti anni. Perché è un film cinico, lirico e colmo di disincanto al contempo. Difficilmente incontrerà il favore di un pubblico abituato alla retorica morale del dramma contemporaneo. Ed è proprio per questo che ci è piaciuto così tanto.

Il film è disponibile per il noleggio su CG Digital, InfinityChiliRakuten TVSky PrimafilaTim Vision Google Play.

Voto Autore: [usr 4,0]

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

“Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo è una favola a cui manca una morale, a cui non è stato scritto un epilogo, a cui forse non equivale nemmeno una storia vera e propria. Un film feroce, acuto, immaginario e tangibile. È “cinema di poesia” come direbbe Pasolini. Un linguaggio cinematografico disgregato che costruisce storie e distrugge vite per raccontare le ferite di un’umanità alla deriva. Uno dei migliori film dell'anno, e probabilmente di molti di questi anni.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.
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“Favolacce” dei fratelli D’Innocenzo è una favola a cui manca una morale, a cui non è stato scritto un epilogo, a cui forse non equivale nemmeno una storia vera e propria. Un film feroce, acuto, immaginario e tangibile. È “cinema di poesia” come direbbe Pasolini. Un linguaggio cinematografico disgregato che costruisce storie e distrugge vite per raccontare le ferite di un’umanità alla deriva. Uno dei migliori film dell'anno, e probabilmente di molti di questi anni. Favolacce