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Ariaferma, recensione del film di Leonardo Di Costanzo

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“Ariaferma”, presentato fuori concorso al Festival di Venezia 2021, è diretto dal regista ischitano Leonardo Di Costanzo (classe ’58), una lunga esperienza nel mondo del documentario. Non è certo documentario, “Ariaferma”, eppure se ne sentono forti gli echi, di questo genere caro al regista. Si tratta di un’opera “sull’assurdità del carcere”, ha spiegato Di Costanzo che ha scritto la sceneggiatura insieme a Bruno Oliviero e Valia Santella (“Il traditore”, “Tre piani”). 

Attori principali: Silvio Orlando e Toni Servillo, i due grandi interpreti campani, recitano per la prima volta insieme.

Ariaferma
Ariaferma

Ariaferma: ogni cosa diventa possibile in una prigione fantasma

Tutto inizia con i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Anche se spesso gli occhi dei buoni, in questa pellicola di Leonardo Di Costanzo, hanno un che di obliquo e torvo. Occhi sospettosi, indignati, increduli, arrabbiati. Gli sguardi dei cattivi (alcuni di loro definiti pericolosissimi) invece, sono perlopiù miti, rassegnati, tristemente malinconici. Alcuni di questi cattivi piangono, delirano nel cuore della notte; i vestiti bagnati di urina. C’è chi vorrebbe farla finita usando un pezzo di vetro.

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Ma il sospetto, tra le guardie, è che i cattivi fingano, facciano sceneggiate, per ottenere, magari, vantaggi, e poter così tornare a casa, abbandonare quelle celle sporche, chiuse da grate arrugginite. I cattivi mostrano il lato più debole di loro stessi. Appaiano vulnerabili e indifesi. Di Costanzo smonta le prospettive, scrivendo una sorta di parabola laica. Il conflitto che descrive disorienta. “Ariaferma” è un film che ribalta i punti di vista e pone domande che generano riflessioni profonde su carità, uguaglianza e redenzione. 

Specchiarsi negli occhi del nemico

La trama del film è pressoché inesistente. È un’opera di sguardi (molto eloquenti quelli di Servillo), di pause, di sottili percezioni. Lo spazio è quello claustrofobico di un vetusto carcere che sta per diventare un edificio fantasma (perfetto per un racconto dell’orrore, in una sequenza le immagini di celle vuote e diroccate fanno venire i brividi).

Tutti i presenti all’interno della struttura se ne dovranno andare; trasferiti altrove. Sia i detenuti che gli agenti che lì sono in servizio. Sono rimasti in pochi tra quelle mura, spesse e decadenti; soffocanti. Il tempo scorre lentamente. Nessuno sa quando avverrà l’agognato trasloco. Si attendono ordini dall’alto. Ma queste disposizioni, com’è facile intuire, tardano ad arrivare. 

Nelle more, l’imperativo burocratico è: restare, resistere, con gli scarsi mezzi a disposizione.

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Ariaferma
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Con i detenuti una manciata di secondini. Il più anziano degli uomini in divisa è Gaetano Gargiulo (Toni Servillo, perfettamente in parte). Spetterà a lui impartire ordini. Il dilemma: in una condizione di eccezionalità, come possono le poche guardie tenere a bada i detenuti? Le cucine sono chiuse, non sono permesse visite.

Sembrano (tutti) abbandonati a loro stessi, gli uni e gli altri, prigionieri e secondini. Entrambi costretti a respirare quella stessa aria immobile, ferma. I prigionieri, fomentati dal boss Carmine Lagioia (Silvio Orlando) protestano. Si rifiutano di mangiare, non vogliono la roba precotta che viene servita. Arrivano le prime richieste fuori da ogni regola: Lagioia vuole cucinare. 

Sarà Gargiulo a decidere se potrà farlo o no. Entrerà in conflitto: obbedire alle norme dettate dai superiori (che però sono altrove, irreperibili) o alla legge del cuore? I colleghi di Gargiulo non hanno tentennamenti e tendono per la prima opzione.

Ariaferma
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Gargiulo, però, temendo rivolte e scioperi della fame, acconsente. Lagioia potrà fare il cuoco. Carmine Lagioia, oltre a cucinare molto bene (emblematica la scena in cui prepara “la genovese” e taglia cipolle), è capace di ragionamenti affilati dal tono filosofeggiante (a lui sono affidate le battute migliori della sceneggiatura). Le riflessioni di Lagioia (il cui pensiero sembra essere l’essenza di “Ariaferma”) sono mirate a sottolineare l’uguaglianza tra gli esseri umani. Al di là delle colpe di ciascuno.

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Una cena al buio per essere tutti uguali

Al buio siamo tutti uguali, sembra suggerire una delle sequenze migliori di “Ariaferma”, quando carcerati e secondini si siedono allo stesso tavolo e cenano insieme. Situazione anomala, scaturita dall’improvvisa mancanza di luce. Le torce non bastano. Gargiulo fa uscire gli uomini dalle celle, ordina loro di unire i tavoli di legno. Una strana comitiva. Le guardie passano sopra la vergogna di sedere accanto a dei criminali. Nella penombra si azzera il giudizio. Tuttavia gli stessi detenuti scacciano via un vecchio perché lo ritengono un “mostro”, il suo reato non può essere perdonato, neanche da chi si è macchiato di delitti.

Di Costanzo pone quesiti importanti. Invita a scavalcare la linea di confine: il nemico non è più diverso e distante. I due personaggi, antagonisti, Gargiulo e Lagioia, certo non si amano, tuttavia per il bene comune, si concentrano su quel poco che li unisce. Solo così potranno risolvere i problemi, in una situazione straordinaria e incerta.

Ariaferma, trailer

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Un luogo sperduto, una prigione fantasma. Guardie e detenuti attendono di essere trasferiti altrove (non si sa bene né dove né quando) e nel frattempo, fra di loro, si instaura una sorta di vaga e sofferta complicità per far fronte alle emergenze scaturite da una situazione anomala e del tutto eccezionale.
Micol Graziano
Micol Graziano
Amo il cinema e i pop-corn.

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Un luogo sperduto, una prigione fantasma. Guardie e detenuti attendono di essere trasferiti altrove (non si sa bene né dove né quando) e nel frattempo, fra di loro, si instaura una sorta di vaga e sofferta complicità per far fronte alle emergenze scaturite da una situazione anomala e del tutto eccezionale. Ariaferma, recensione del film di Leonardo Di Costanzo