A tutti è capitato almeno una volta nella vita di sognare di esserci svegliati: ci vestiamo, usciamo dalla porta, andiamo fino a lavoro o a scuola. E poi ci ridestiamo, nel nostro letto, con la sveglia che ci urla di alzarci per davvero. Questa è la vita che Cèsar (Eduardo Noriega) è condannato a vivere in eterno. Lo incontriamo per la prima volta a letto, appunto, pungolato dalla sveglia che recita le parole del titolo. Cèsar si alza, si lava e va al lavoro. Ma, una volta in strada, nota l’assoluta desolazione: non c’è un’automobile, né una persona. Comincia a correre e a gridare, disperato. Si ritrova a letto. Era solo un sogno.
Da questo momento una voce fuori campo scandisce la narrazione. È lo stesso Cèsar che, in un futuro indefinito, rinchiuso in quello che sembra essere un ospedale giudiziario, parla allo psichiatra Antonio (Chete Lera). Racconta del giorno del suo compleanno, un giorno decisivo in cui, in una notte, passa dal paradiso all’inferno. Infatti, Cèsar incontra la donna della sua vita, Sofia (Penelope Cruz), aspirante attrice che fa il mimo per strada per raccattare qualche spicciolo, attuale fidanzata del suo migliore amico Pelayo (Fele Martinez). Dopo una notte passata a innamorarsi di lei, Cèsar subisce un incidente che lo lascia sfigurato in volto. Solo e senza più la sua identità, Cèsar perde progressivamente il senso della realtà, e quello che all’inizio confondeva per un sogno, presto diventa un incubo da cui non riesce a svegliarsi.
Film ricco di fascino e di mistero, Apri gli occhi (Abre los ojos, 1997) è il secondo lungometraggio del regista cileno naturalizzato spagnolo Alejandro Amenábar che esordì solo l’anno precedente con il conturbante Tesis, che vinse sette Premi Goya, gli equivalenti spagnoli degli Oscar. Apri gli occhi confermò Amenábar tra i migliori registi esordienti spagnoli, conquistando il favore di critica e pubblico. Infatti, superò persino Titanic ai botteghini madrileni e ricevette sette candidature ai Goya. Citato nel libro 1001 film da vedere prima di morire di Stephen Jay Schneider, Apri gli occhi è un intricato e conturbante film di fantascienza, che esplora il labile confine tra realtà e immaginazione.
Il film parte da un’idea dello stesso Amenábar, anche sceneggiatore, che volle esorcizzare i tremendi incubi avuti durante un’influenza particolarmente perniciosa. La narrazione è una continua e tartassante sovrapposizione di sogno e veglia, che vanno a intersecarsi e a confondersi. Ogni sequenza ci sembra più reale della precedente ma più onirica della successiva. Non sappiamo quali scene siano sogno o realtà, o anche se esistano delle scene di sola realtà o di solo sogno. Si può dire quindi che il film sia fatto di falsi risvegli, anche per lo spettatore. Ogni volta che pensiamo di aver capito quale sia la vera scansione temporale e logica del film, la scena successiva ci scoppia in faccia, in un intreccio abile e fin furbo, che trova la sua forza proprio nell’instillare incertezza nello spettatore.
Il fulcro del film è infatti l’ambiguità: tra la realtà e la finzione; tra il passato e il futuro; tra le identità. Questa in particolare genera la riflessione su cosa sia l’identità, che è riassunta nella dicotomia volto/maschera. Infatti, Sofia è un’attrice e fa il mimo per strada con una maschera di pittura bianca sul viso. Allo stesso modo, Cèsar odia gli attori, ritenendoli bravi solo a essere falsi e riconosce subito quando Sofia sta fingendo (da notare la scena al parco, in cui la pioggia le porta via la pittura). Inoltre, per nascondere il suo volto deturpato, Cèsar indossa una maschera levigata e immobile, che porta a qualche momento di gustoso paradosso, come nella scena della discoteca in cui, col suo vero volto, alcuni ragazzi gli intimano di togliersi la maschera.
Rifatto nel 2001 da Cameron Crowe col titolo Vanilla Sky, che vede per protagonista Tom Cruise, Penelope Cruz (nello stesso ruolo) e Cameron Diaz. Sicuramente meno riuscito dell’originale, pecca per eccesso di moralismo, piegando i temi originali in ottica yuppie. Tom Cruise è infatti un ricco broker bello e misogino che, perdendo l’avvenenza fisica, riconosce la superficialità dei suoi valori. Se nel remake però il finale acquista valore morale, qui lascia a desiderare. Infatti, se da una parte risolve l’enigma dell’intera narrazione, dall’altra ruba al film il suo vero fascino di ambiguità non risolta.