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Titane – la recensione del film vincitore al Festival di Cannes

Nel 2016 l’astro nascente costituito dalla regista e sceneggiatrice francese Julia Ducournau sconvolge gli spettatori di tutto il mondo con il suo film d’esordio, l’arditissimo Raw – Una cruda verità (Grave in lingua originale). Il debutto è un successo ampiamente discusso, che garantisce alla regista l’attenzione dei principali festival cinematografici di tutto il mondo. Non soddisfatta, Ducournau sceglie (fortunatamente per il suo pubblico) d’incanalare il suo personalissimo stile in un’incredibile opera seconda, tanto ambiziosa e audace quanto la prima. Nel 2021 viene così alla luce l’impareggiabile Titane, scritto e diretto da Ducournau: 108 minuti di puro sperimentalismo narrativo, che spazia tra i generi più svariati (dall’horror alla fantascienza passando per il dramma) ammaliando lo spettatore con contenuti mai visti prima. Tali sono l’innovazione e la potenza del racconto filmico messo in atto da Ducournau che la pellicola, in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes (quello di quest’anno), ha vinto la Palma d’Oro.

Titane

La trama del film

La piccola Alexia, in occasione di un viaggio in automobile con il padre, viene implicata in un grave incidente stradale. A seguito di quest’ultimo, per la sua sopravvivenza le viene impiantata nel cranio una placca di titanio. Gli anni passano, Alexia diventa un’affascinante e sensuale giovane donna (Agathe Rousselle) e la placca fa ancora parte di lei. Ha uno sgradevole rapporto con i genitori, lavora come ballerina in un losco locale notturno e si vede costretta a subire le attenzioni – quasi esclusivamente indesiderate – degli avventori del luogo. Alexia però è coriacea e decisa a non sottostare a tali umiliazioni, motivo per cui questo tipo di spiacevoli incontri tende a culminare con la violenta e iraconda uccisione, effettuata da parte di Alexia, del/della spasimante in causa. Proprio nei giorni in cui la giovane lamenta forti dolori e scopre di essere incinta, si macchia di qualche omicidio di troppo.

Terrorizzata che la polizia (già sulle sue tracce) la scopra, fugge di casa. Mentre si nasconde nota, casualmente, una spaventosa somiglianza tra se stessa e il rendering digitale della versione adulta di un bambino, Adrien, scomparso anni prima. La donna allora altera per quanto possibile i suoi connotati e nasconde il seno e il ventre gonfio per la gravidanza, affinché possa diventare ancor più simile ad Adrien; dopodiché si reca dalla polizia dichiarando di essere il ragazzo. Il padre, Vincent (Vincent Lindon) torna a casa con quello che crede essere il proprio figlio, ma che è in realtà la giovane serial killer. Le giornate di Alexia saranno così segnate dal conflittuale e altalenante rapporto con l’uomo, vittima di evidenti turbe psicologiche, e dal costante tentativo di celare la propria identità, mentre la sua dolorosa gravidanza si rivelerà più misteriosa e sovrannaturale del previsto.

La protagonista di Titane e le implicazioni del personaggio sul piano teorico

Per raggiungere il desiderato impatto emotivo, la narrazione di Titane si avvale di eccezionali interpreti. Gli attori, la maggior parte dei quali pressoché sconosciuti al pubblico, offrono performances intense, dense, viscerali, conferendo così il medesimo tono al film nella sua interezza. Su tutte, svetta l’interpretazione dell’impareggiabile protagonista, Agathe Rouselle, sorprendentemente (e letteralmente) sui generis. Il personaggio da lei incarnato, grazie alle doti dell’attrice, risulta affascinante, magnetico, disturbante. Alexia è un’entità a se stante rispetto agli altri personaggi, agisce su un altro livello – tutto suo, personalissimo – e contemporaneamente prescinde dalla nozione di gender, oscillando fluida tra le più svariate identità: donna in gravidanza, ragazzo dal passato traumatico, pericolosa serial killer, figlia capricciosa, sensuale ballerina, inesperto pompiere.

Tramite il personaggio di Alexia (e di conseguenza, per mezzo dell’interpretazione di Rousselle) Ducournau mette in atto un sagace attacco al voyeurismo maschile – operazione che tanto sarebbe risultata gradita a Mulvey, Cook e alle teoriche della brillante Feminist Film Theory degli anni Settanta. In effetti, tramite la parabola della sua protagonista, Ducournau decostruisce dall’interno il concetto di femminilità. All’inizio di Titane Alexia è incarnazione di un’iper-femminilità debordante che trova sfogo nelle sue performance notturne; con il passare dei minuti sullo schermo i presunti baluardi della sua femminilità (da un punto di vista prettamente estetico, dunque seno, capelli e abbigliamento provocante) vengono annientati. La sceneggiatrice gioca in modo molto acuto con i concetti di maschile e femminile, integrando all’interno della propria narrazione anche l’elemento della gravidanza (per quanto peculiare) e facendosi dunque beffa della trita equazione secondo cui la donna è tale in quanto madre.

La maestria autoriale e registica di Ducournau trova in Titane la propria espressione

Ciò che più salta all’occhio nello stile di Ducournau è la crudezza autoriale, che inevitabilmente si riversa sul piano registico, con risultati eccellenti. Sono stati in molti a trovare (erroneamente) nel gender della personalità registica un surplus di merito nel ricorso a tale durezza. Ma il cinema di Ducournau non è “crudo considerando che si tratta di una regista donna”: è magnificamente, puramente crudo, senza che sia necessario citare in causa il genere della regista. Quest’ultima, memore della lezione di Bigelow e altre illustri colleghe, dimostra che una regia “al femminile” (espressione biasimabile) non deve essere necessariamente contraddistinta da delicatezza e candore. Può anche essere intensa, viscerale, ruvida, colpendo allo stomaco il proprio pubblico; è in questo Ducournau è maestra di stile, come già aveva dimostrato nel suo film d’esordio. Tuttavia, nel proprio personalissimo stile la regista lascia spazio alle influenze dettate dal citazionismo.

Sono svariati, in effetti, i fili narrativi che rimandano all’esperienza registica cronenberghiana del body horror, e plurime le scene in cui si avverte la contaminazione di colleghi illustri (la scena in cui Alexia altera i propri connotati ricorda, ad esempio, quella del fincheriano Gone girl). Allo stesso modo con cui gioca con le diegesi e i toni dei propri colleghi, in Titane Ducournau manipola i generi. La pellicola oscilla infatti senza sosta tra i più svariati generi: il tono generale è lo stile registico sono quelli tipici dell’horror, la misteriosa gravidanza rimanda indubbiamente alla fantascienza, la critica ad un certo tipo di toxic masculinity pertiene al dramma sociale, il filo narrativo della serial killer che non deve essere scoperta è tipico del thriller e il conflitto con la figura paterna (incarnato sia dal rapporto tra Alexia coi genitori che da Vincent con il figlio scomparso) è quello del dramma familiare.

Titane

Ducournau gioca con i generi, senza creare commistioni dissonanti ma anzi equilibrandoli ed unendoli ad una tecnica studiata e accorta (come si evince dagli ironici accostamenti musicali nelle scene di lotta tra Alexia e le sue vittime). Quello effettuato dalla regista in Titane è un esercizio di stile dei più raffinati, ma di certo non fine a se stesso. Ducournau padroneggia al meglio il medium che sta utilizzando, dimostra un’ampia e profonda conoscenza tecnico-teorica ma va ben oltre il puro piano accademico. Con questo film la regista infatti trasmette al suo pubblico suggestioni intense, comunica sensazioni potentissime che colpiscono il pubblico come solo il cinema di spessore e di qualità riesce a fare.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Titane, vincitore della Palma d’Oro al 74esimo Festival di Cannes, è il secondo film di Julia Ducournau. La sceneggiatura esplora la peculiare parabola di una serial killer dai trascorsi traumatici e “vittima” di una misteriosa gravidanza. La regia, unita ad un montaggio meticoloso, ad un’efficace fotografia e a studiati accostamenti musicali, gioca spaziando tra i generi più svariati. Unito alle intense interpretazioni dei protagonisti, il lavoro di Ducournau risulta fondamentale alla creazione di un film dalla crudezza micidiale, che per quanto gradito o sgradito certamente non passa inosservato, ma anzi lascia un segno profondo nello spettatore.
Eleonora Noto
Eleonora Noto
Laureata in DAMS, sono appassionata di tutte le arti ma del cinema in particolare. Mi piace giocare con le parole e studiare le sceneggiature, ogni tanto provo a scriverle. Impazzisco per le produzioni hollywoodiane di qualsiasi decennio, ma amo anche un buon thriller o il cinema d’autore.

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