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Raw – Una cruda verità: la recensione del film di Julia Ducournau

Definito uno dei film più controversi del 2016, Raw è manifesto della nuova estetica horror del cinema francese contemporaneo. Un film così “crudo” da essere inserito da Netflix nella lista dei film che costringono gli abbonati a premere il tasto pausa per interromperne, anche solo per un attimo, la visione.

Julia Ducournau, che con la sua ultima favola di carne e metallo “Titane” ha conquistato la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, già aveva fatto molto parlare di sé con la sua indigesta opera horror “Raw”.

Il film ha raccolto svenimenti, nausee e diserzioni in sala. Ma le abbuffate di crudissima carne umana sono state molto apprezzate dai festival di tutto il mondo che hanno ricoperto di riconoscimenti l’autrice francese e la sua insana fame di dramma umano al sangue. Estremo, affamato, intimo: Raw fonde l’orrore del corpo cronenbergiano con un Cannibal Holocaust femmineo e bestiale.

Raw” di Julia Ducournau è il promettente rampollo della grande famiglia horror francese, richiamando il bel cinema di Pascal Laugier e Xavier Gens. Corpi stracciati, identità lacerate mai più ricomposte, e violenze arbitrarie e estetizzanti, eppure capaci a ben vedere di comunicare con l’inumano che è in noi.

“Raw”: l’orrore del corpo e il desiderio della carne

Justine (Garance Marillier) è piccola, flebile, stiracchiata, nascosta sotto maglioni troppo grandi e dentro una pelle chiara, sottile, struccata. Justine sembra quasi essere nata per essere divorata dal mondo, dalle forzature imposte, dalle arroganze del sistema. Ad invaderle spazio e corpo ci provano fin dalla prima scena, sin da quella carnosa polpetta nascosta a tradimento nella purea di patate, frutto proibito da espellere immediatamente sotto gli occhi di apprensivi dei genitori vegetariani.

Arrivata al college della facoltà di veterinaria, vuole adattarsi, passare inosservata, studiare senza attrarre attenzioni. Ma quando i rituali di hazing rookie (quelle feroci cerimonie di iniziazione fondate sull’irrefrenabile desiderio di esercitare un’autorità vessatoria nei confronti delle matricole) la costringono ad ingoiare fegato di coniglio crudo, la fedele vegetariana scopre appetiti vergini, soppressi troppo presto per averne ancora un ricordo.

Raw - una cruda verità

Il boccone che le è stato costretto in gola le farà bruciare la pelle e rivoltare lo stomaco, mettendola letteralmente in ginocchio in una massa brulicante di volti, bocche, lingue e sudore. In quel mondo freneticamente adulto, in cui le feste universitarie non hanno fine e la morale è sospesa, la fame di carne diventerà per Justine un’ossessione. Fino a quando anche la vista di un dito appena reciso saprà stuzzicarle un incontrollabile appetito. Un dito accidentalmente mozzato che lei accarezza, lecca, succhia, mordicchia e infine, mangia.

Il desiderio cannibale cresce nella giovane studentessa alimentato da uno straziante desiderio sessuale. Una pulsione epifanica e lacerante al contempo. Justine è graffiata nel profondo dal suo stesso corpo, percorsa da istinti irregolari, inconfessabili e osceni, e violentata dal corpo degli altri, adulti, coetanei, familiari. Ricoperta di vernice, ripresa ubriaca e morsa dalla sua depravata fame, sottoposta ad una depilazione dolorosa in cui la cera non vuole staccarsi dalla sua incontaminata carne.

“Raw” e la mostruosa urgenza di controllo

Da questa mostruosa angolazione, “Raw” è la storia di un disgusto di sé, di una ripugnanza della propria materia organica: una natura troppo carnale, troppo viva, troppo capricciosa da controllare. Una materia che muta la propria forma per approdare in fattezze sconosciute, così diverse da ciò che ci si ritiene accettabile da risultare terrificanti. E dopo l’orrore di un corpo dis-umano in divenire viene suggerita l’osservazione antitetica di quello puramente animale, ammirato, rispettato, protetto. Eppure durante i corsi di veterinaria i corpi animali sono sezionati, esplorati, tagliuzzati. Se da un lato queste attività ne attestano la naturalità, dall’altro sembrano voler lasciar intendere che dietro alla venerazione per il mondo animale possa celarsi una disonesta urgenza di esercitare il controllo.

La protagonista di “Raw” si contorce nella disperata ricerca di una morale alla quale far obbedire il suo corpo, quel corpo che trasgredisce, quel corpo che, agonizzante, tradisce il mondo interiore impartitole e morde le proprie catene, sprofondato nel desiderio che ipnotizza chi lo guarda e domina chi lo prova. Perché il film di Ducournau è anche la storia di una violenza cui si è coraggiosamente disposti a sottoporsi pur di ricercare un affrancamento dai sistemi di controllo, esterni (parentali, istituzionali, morali) e interni (genetici).

Mentre la sorella Alexia (Ella Rumpf) – anche lei particolarmente affamata di carne umana – cede senza rimorsi alle sue pulsioni naturali, la giovane Justine lotterà atrocemente contro se stessa per rispettare i legami affettivi a cui intende restare fedele.

Il cannibalismo è donna

Se l’uomo disperato, affamato, pronto a sbranare i suoi simili fa paura, allora è bene sottolineare che la mostruosità femminile ne fa molta di più. Perché se a mordere, consumare e divorare sono le donne diventa molto difficile credere di poter rifondare un mondo altro alieno dalla bestialità. Il patriarcato teme le donne perché riconoscerne la parità metterebbe fine al presunto dominio machista, esattamente come in “Raw” si teme la natura animale, quella propensione indomita, bestiale, e quella comprovata somiglianza con l’umano, e allora si preferisce soppesare, ingabbiare e sezionare.

Questa non è una banale narrazione di orrorifico cannibalismo ma il tentativo di inchiodare le contraddizioni di un sistema che sa trasmettere valori morali solo mantenendoci a prudente distanza dalle nostre pulsioni. Per poi ricorrere alla costruzione di zone grigie in cui sfogare triviali istinti, e tornare presto a fingere che nessuno di noi sia autorizzato a desiderarne la soddisfazione.

Raw - una cruda verità

Uno dei film d’esordio più sconvolgenti degli ultimi anni

“Raw” è un film dalla crudezza estrema, distaccata, quasi pasoliniana. Julia Ducournau negli esterni predilige i campi lunghi e lunghissimi dove è necessario sforzarsi per vedere. Fuori ci sono sempre pochissimi elementi, è il vuoto a dominare. Negli interni invece si affollano persone, animali e oggetti, e la camera sceglie di riprendere con totali e primi piani. La contrapposizione formale tra esterni ed interni tende a sottolineare la mutazione dei corpi e delle loro pulsioni avvertita dalle due sorelle una volta lasciato il protettivo ma soffocante nido familiare e entrate in uno spazio altro del loro vissuto.

Quello di Julia Ducournau è un furore registico controllato, elegantissimo e geometrico, che sa nascondere il pathos dietro ad ogni ponderata scelta d’angolazione. Dall’agghiacciante campo lungo d’apertura di un incidente d’auto in cui la morte si consuma mentre nulla si muove, al miscuglio di carni e corpi nei rave studenteschi ripresi in single take, alla sudata metamorfosi entro la gabbia delle lenzuola, Ducournau e il direttore della fotografia Ruben Impens realizzano un’opera elettrica, sicura di sé, feroce.

“Raw” è un film d’esordio sorprendente, che ci abbandona scomodamente seduti in un angolo angosciati dall’idea di essere affamati del nostro stesso sangue. Non c’è conforto, non c’è amore, solo fredda e inanimata carne cruda.  

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Raw" - Una crude verità è uno dei film d'esordio più sconvolgenti, ed indigesti, degli ultimi anni. Estremo e intimo, ma controllato e elegante: un horror che coniuga cannibalismo, crisi identitaria ed esigenze di controllo sistemiche. Un film assolutamente da vedere. Preferibilmente lontano dai pasti.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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