Il miglior film di Sean Baker – Cinema indipendente nordamericano
Dopo essere stato presentato in concorso al 74° Festival di Cannes, Red Rocket, il settimo folle lungometraggio di Sean Baker – autore legato al circuito indie del cinema nordamericano – entra nella sezione “Tutti ne parlano” della Sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
A differenza di titoli precedenti come Take Out, Starlet e Tangerine, Baker veicola Red Rocket allo stesso modo di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida), ossia in una direzione cinematografica probabilmente più convenzionale, seppur ancora una volta filtrata dal linguaggio esplicito e fortemente metaforico di altri media, su tutti il videoclip.
Ne è prova il lavoro sulla fotografia del film, a cura di Drew Daniels che rende la materia visiva sgranata e pastosa, come se la qualità d’immagine variasse a seconda delle sequenze, dei toni e delle emozioni.
Sean Baker realizza il suo film più riuscito. Red Rocket infatti ragiona con sorprendente efficacia sulla resa caustica ed esilarante di dramma umani realmente bassi e squallidi subiti e perpetrati da individui che hanno perso tutto e che si trascinano incessantemente come meglio possono tra degrado, mercificazione di corpi, abuso di droga e privazione di moralità, dignità e sentimento.
Tornare a casa – Il porno è alle spalle, davanti soltanto l’amore
Il film di Baker comincia con un ritorno, la cui causa viene lasciata in sospeso per gran parte della narrazione, proprio per una costruzione di arco narrativo legato al personaggio di Mikey Saber, interpretato da un redivivo e straordinario Simon Rex.
Mikey è un senzatetto, senza soldi né lavoro. Per molto tempo ha lavorato nel mondo del porno a Los Angeles ottenendo successi e fama, per poi subire come qualsiasi celebrità istantanea la caduta e la crisi, senza trovare in seguito la necessaria risalita. Perciò accettando la sconfitta controvoglia (lo dimostra la tumefazione del volto nella scena d’apertura) torna nella cittadina natale, Texas City, nella contea di Galveston.
Ad attenderlo a Texas City c’è però il passato che Baker presenta in due modi diversi.
Il primo, quello fisico e umano.
Lexi (Bree Elrod), la moglie tossica, ex pornostar che nella periferia della cittadina sopravvive in compagnia della anziana madre (altrettanto tossica e immorale) tra spaccio di droga, favori da parte di una piccola criminalità (raccontata da Baker tra il demenziale e il grottesco) e una lunga serie di sussidi di disoccupazione.
Il secondo, quello sociale e d’atmosfera.
Baker qui si concentra sui volti e sui dialoghi. Dunque sul forte sentimento di vergogna e imbarazzo che la “gente del posto” prova nei confronti di Mikey. Un perdente che è fuggito nella grande città con la scusa di un provincialismo asfissiante tale da privarlo di qualsiasi possibilità e riscatto sociale, successivamente tornato al punto di partenza, questa volta definitivamente perdente e senza più vie d’uscite, se non la crisi o la morte.
Il passato torna sempre. Mikey però più che affrontarlo perché costretto e in qualche modo tragicamente sottomesso dalle conseguenze di una vita sfrenata che non ha saputo cavalcare, si ritrova a muoversi come uno spavaldo impostore che torna nella casa della moglie come se niente fosse accaduto nel corso degli anni. D’altronde è visto di buon occhio dalla anziana madre Lil che pur di avere due soldi per la droga accetta lo sfrontato, scorretto e sessuomane genero che ha tradito e abbandonato la figlia Lexi.
Il contesto familiare profondamento sporco e squallido generato da madre e figlia tossiche non fa che allontanare ancora una volta Mikey che ben presto si innamora di Strawberry (Suzanna Son), l’attraente e ninfomane cameriera minorenne del negozio locale di ciambelle.
Sesso e riscatto – Mikey Saber e l’annullamento dell’uomo
Strawberry nel pieno della sua giovinezza assolutamente sfrontata e priva di filtri condivide quello stesso sentimento e necessità di fuga dalla provincia che Mikey ha già bruciato molti anni prima, quando ancora era coetaneo di Strawberry e non un uomo che si avvicina sempre più pericolosamente alla mezza età come al momento del loro incontro.
L’identificazione tra i due avviene però nell’esclusiva condivisione di una sfera sessuale disinibita, eccessiva e perciò fasulla come solo il cinema porno può raccontare e mostrare, tagliando via quel sentimentalismo innocente e romantico che è nucleo dell’innamoramento “reale” o comunque di un’emozione condivisa, al di là del sesso.
Una scelta questa centrale nel film di Baker poiché presenta l’occasione definitiva rispetto al mostrare il marcio, la bassezza e la perdita di qualsiasi dignità da parte di Mikey Saber che in Strawberry non vede nemmeno lontanamente un amore, bensì una grande opportunità di ritorno e scommessa a quel mondo del porno che prima lo ha idolatrato e poi cacciato.
Ecco che Baker giunge al nodo probabilmente più drammatico di Red Rocket, nel sottolineare la corruzione morale di un uomo adulto che pur di tornare alla fama (offerta da un contesto comunque ambiguo) sceglie di non considerare la disparità d’anni in ogni caso illegale esistente tra lui e la giovane Strawberry che altro non è che un mezzo, un’opportunità, un’altra persona di cui servirsi.
Non c’è che dire, Sean Baker con questo settimo film dimostra una maturità cinematografica senza precedenti e davvero degna di nota.
Red Rocket è senza alcun dubbio un grande film su un’America di provincia che non abbiamo mai avuto l’occasione di conoscere e affrontare, per quanto cruda, parassitaria, tossica e senza alcuna speranza.
La ballata rock di Sean Baker – Provincialismo, illusioni perdute e… Bruce Springsteen
L’America di Red Rocket è un microcosmo isolato e per certi versi annullato e sospeso che si muove tra l’ombra cupa dell’ascesa di Donald Trump e le conseguenze delle gesta criminali, tragiche, metaforiche e simboliche di un’America purtroppo esistente messe in atto dai numerosi individui macchiettistici e perciò fortemente parodici e talvolta grotteschi che Mikey affronta e frequenta.
Tutto questo vive a livello cinematografico tra stili e toni sempre differenti: dalla comicità esilarante e caustica, al dramma umano più tragico, fino a sprazzi di sentimentalismo che tuttavia non può sfogarsi, giungendo ad un finale che è chiave dell’intero film per quanto metaforico, allusivo e probabilmente nichilista.
La sceneggiatura di Red Rocket curata da Sean Baker e Chris Bergoch sembra scaturire sorprendentemente ed efficacemente da una ballata di Bruce Springsteen, nella sua esigenza e volontà così sincera e umana di raccontare speranze e illusioni americane perdute.
A tal punto da essere destinate alla perdizione e al fallimento più totale, seppur per un frammento di tempo immaginate così falsamente zuccherose e ottimiste, come solo il Boss è sempre stato e sempre sarà capace di raccontare.
Memorabile, tragico e poetico. Così com’è consigliata la visione di Red Rocket, è fortemente consigliato l’ascolto di Stolen Car, ballata rock nostalgica, sussurrata e definitiva del Boss. Una traccia minore facente parte del celebre album The River del 1980.
Stolen Car è un racconto d’illusioni d’amore tra consapevolezze e lettere che un giovane innamorato ricorda e racconta prima a sé stesso e poi alla ragazza che si è ormai lasciato alle spalle. Mentre affronta lunghe e notturne strade di una provincia americana mai nominata al volante di un’auto rubata, tutto ciò che teme e che inconsciamente richiede è che le guardie o il buio della notte se lo portino via, mettendo fine al suo dolore.