The call

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Ci sono due ragazze al centro di The call, film d’esordio del sudcoreano Lee Chung-hyun. Hanno la stessa età, ventotto anni, ma vivono in due epoche differenti. Ad unirle ci sono la casa in cui entrambe vivono (una casa che muta più volte all’interno del film) e un telefono.

La pellicola, che si rifà a The caller, film inglese del 2011 diretto da Matthew Parkhill, è uscito su Netflix lo scorso 27 novembre e racconta la storia di Seo-yeon e Young-sook, interpretate rispettivamente da Park Shin-hye e Jeon Jong-seo. La prima vive nel 2019, mentre la seconda esattamente vent’anni prima, nel 1999, eppure una telefonata riesce a metterle in contatto. Le due ragazze cominciano a conoscersi, l’una apprende le caratteristiche dell’altra e del tempo in cui vive. Il loro rapporto cresce, finché Young-sook, la ragazza del passato, decide di aiutare Seo-yen, facendo in modo che un terribile episodio che ha segnato l’infanzia di quest’ultima non si avveri mai. L’origine dei tragici eventi che seguiranno è proprio questa decisione.

The call

Tra le tante cose che colpiscono di questo film, c’è sicuramente la sua capacità di trasformarsi più volte nel corso delle quasi due ore che lo compongono. In questo ricorda Parasite: così come nel film di Bong Joon-ho, infatti, anche in The call le cose cambiano repentinamente da un momento all’altro, a partire dalle relazioni tra i personaggi fino ad arrivare al tono con cui la vicenda viene narrata. Il rapporto tra la ragazza del presente e la ragazza del passato si trasforma all’improvviso e in modo inatteso e la ragazza del presente si ritrova impotente dinnanzi alla violenza che si scatena dall’altra parte. The call ci dice che manipolare il passato può segnare il presente in modo irreversibile: seguiamo così due storie in parallelo, l’una strettamente legata all’altra (gli effetti di ciò che accade nel passato si rivelano immediatamente nel presente) e questa forte dipendenza di una linea temporale dall’altra innesca un meccanismo di curiosità che cattura l’attenzione dello spettatore.

Il tempo diventa quindi uno strumento per raccontare due personaggi profondamente diversi, ma accomunati dall’aver subito in tenera età dei traumi terribili. Tuttavia, mentre una delle due ragazze ha la possibilità di riavvolgere il nastro e cancellare quei traumi, l’altra è costretta a vivere sul proprio corpo gli effetti delle tragedie subite.

The call

Tra i due personaggi, quello con l’evoluzione più significativa è Young-sook, la ragazza del passato. La vicenda porta inizialmente lo spettatore ad empatizzare con lei e con la sua terribile condizione (segregata in casa e succube di una donna folle che le fa da matrigna), salvo poi rendersi conto di quale sia la sua reale e spaventosa natura. Ha ventotto anni, ma parla e si muove come fosse una ragazzina; dietro questa fanciullezza, si cela però una violenza fuori controllo che aspetta solo di poter esplodere. Young-sook è un personaggio che non può essere compreso, ciò che fa non trova giustificazioni e la sola reazione possibile difronte alle sue azioni è la paura. Così come lo spettatore non può capire Young-sook, lei non può capire il mondo che la circonda, perché sin da bambina le è stato impedito di conoscere ciò che stava al di là delle mura di casa. Ecco perché la sua violenza non conosce freni, è una persona che conosce solo il male ed ogni altra cosa al di fuori di esso è per lei qualcosa di estraneo e sorprendente. Questa sua ambivalenza è sintetizzata in una scena, in cui, prima di compiere un atto di estrema violenza, si ferma ad ammirare con curiosità alcuni cuccioli chiusi in una gabbia.

È un gioco quasi metacinematografico quello messo in scena da Lee Chung-hyun. Per gran parte del film Seo-yen, la ragazza del presente, si trova nella stessa condizione dello spettatore, può solo osservare con sgomento le conseguenze dei propri errori, senza poter intervenire in alcun modo. Questo ruolo da spettatrice si trasforma in qualcos’altro nel terzo atto del film, quando Seo-yen si rende conto che non solo il passato può influenzare il presente, ma anche viceversa.

Come in tanti altri film che giocano col tempo, anche in The call un’attenta analisi alla plausibilità di ciò che viene raccontato rischierebbe di far crollare l’intera struttura narrativa, tuttavia non è in questo che sta il punto di forza del film, bensì nella sua capacità di costruire la tensione scena dopo scena. C’è un forte senso di claustrofobia che permea le vicende del film, la consapevolezza di non avere alcun potere su ciò che accade lontano da noi (addirittura in un’epoca passata) e questa impotenza è perfettamente riassunta nella scena ambientata in una galleria nella seconda metà del film.

Questa peculiare tendenza del film a trasformare e trasformarsi si riflette anche sui dettagli apparentemente più irrilevanti, come la pettinatura di una delle due ragazze, che cambia a seconda di quanto accade nell’altra linea temporale. È lo specchio dei suoi traumi ed esplicita quella che è la caratteristica principale del cinema, la capacità di raccontare innanzitutto attraverso le immagini, ancor prima che attraverso le parole. E questo film dimostra di saperlo fare.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

The call si basa su un’idea forte e accattivante, ma non si limita ad adagiarsi su di essa, bensì costruisce un racconto complesso in cui la tensione cresce scena dopo scena fino al climax finale. È un film che cambia più volte nel corso della sua durata, così come i suoi personaggi e i suoi ambienti, rivelandosi capace di raccontare con le immagini prima ancora che con le parole.
Redazione
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