“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.”: l’incipit di un grande classico della letteratura quale Anna Karenina di Lev Tolstoj si adatta magnificamente all’ultima opera del maestro coreano Bong Joon-ho, primo film del Paese asiatico ad aggiudicarsi la Palma d’oro al Festival di Cannes. Un riconoscimento storico per una pellicola che entra di diritto nella storia del cinema moderno, rivelandosi tra i più illuminanti capolavori dell’ultimo decennio. Il regista, osannato dalla critica e dal pubblico fin dai suoi esordi per aver rivoluzionato e dissezionato vari generi con titoli come Memories of Murder (2003), raffinata ed appassionante rivisitazione del poliziesco autoctono, lo spettacolare monster-movie The Host (2006), il drammatico Mother (2009) e il fantascientifico Snowpiercer (2013), suo esordio hollywoodiano seguito dal sottovalutato, produzione originale Netflix, fantasy animalista Okja (2017), realizza con Parasite il suo lavoro più compiuto, un’analisi dei rapporti umani e dei sottotesti sociali mai così acuta e potente.
Non sarebbe sbagliato osservare nelle prime fasi del racconto un’improbabile quanto affascinante commistione tra il cinema di Yasujirō Ozu e derive da quello di Luis Bunuel, ma sarebbe altrettanto riduttivo espletare quanto accadente su schermo come un semplice rimpasto di omaggi e citazioni. Parasite riesce già nel folgorante prologo a descrivere in brevi tocchi la quotidianità di una famiglia allo sbando che abita in una piccola casa sotto il livello della strada: il padre Kim Ki-taek, la madre Choong-sook e due figli poco più che adolescenti, Ki-woo e Ki-jeong, costretti a vivere di espedienti per campare giorno dopo giorno. Ma ecco arrivare l’improvvisa svolta che potrebbe cambiare per sempre le loro esistenze, risiedente nella visita di un compagno di scuola del primogenito che propone all’amico d’infanzia, il quale ha interrotto gli studi per le precarie condizioni economiche, di sostituirlo momentaneamente come maestro privato d’inglese per dare lezioni alla giovane Da-hye, figlia del ricco uomo d’affari Park. Con l’aiuto della sorella Ki-woo falsifica i documenti e riesce a ottenere il posto; dopo aver conquistato la fiducia della padrona di casa, decide di trovare un modo per far assumere i restanti membri della sua famiglia come dipendenti in vari ruoli all’interno della magione, dando il via ad un gioco pericoloso che si complicherà sempre di più.
La prima parte vive su un estasiante gioco degli eccessi dialettici, con istinti da black-comedy di qualità assoluta che si esaltano nelle scoppiettanti battute e reazioni dell’eterogeneo cast, sempre pronto a sfruttare i giusti tempi comici con una mimica tanto espressiva quanto ricca di ulteriori significati nascosti. Risate a non finire che si incupiscono progressivamente, raggiungendo l’apice di inesplosa, latente, follia con il colpo di scena che da metà visione in poi cambia diametralmente le carte in tavola, o meglio le spariglia in maniera del tutto imprevedibile. Ed è allora che Parasite si trasforma in una satira feroce e crudele sulla lotta di classe, assurge a trattato politico di prima grandezza nell’affrontare le relazioni tra ricchi, poveri e ancora più poveri in un gioco destinato al massacro pronto ad esplodere nella violenta “resa dei conti” finale, seguente in piena regola quel feticismo pulp che caratterizza gran parte delle produzioni coreane del nuovo millennio. Ma anche qui, come nel melanconico e amaro prologo, vive una sguardo docile e conciliante nei confronti di questi personaggi sopra le righe, colpevoli sì ma in un mondo ancor più colpevole che separa la popolazione tra alto e basso, tra chi ha troppo e chi non ha nulla.
E se il mondo è fatto a scale, c’è chi scende c’è chi sale, come recita un famoso proverbio, Bong Joon-ho prende questo assioma nel suo assolutismo, delineando anche tramite le ambientazioni le relative differenze sociali: non è un caso che l’abitazione della famiglia Kim sia sotto il livello della strada e che un altro dei luoghi cardine sia di pari o inferiore livello, e le inquadrature stesse sottolineino, esasperando, questa disparità di vedute tra il sopra e il sotto (basti osservare il magnifico dittico di sequenze conclusive per comprenderne appieno l’impostazione stilistica e metaforica). Tra trucchi narrativi mai gratuiti ma figli di una scrittura ragionata e minuziosa, guardante a tratti ad un’estetica da kammerspiel (e certe sequenze di suspense sono di un livello tensivo raro nel panorama contemporaneo) nel seguire da vicino le numerose figure coinvolte, una manciata di scene madri in esterno che brillano di macabra ironia nera nell’esporre invece un dramma quanto mai imminente, e una colonna sonora, vantante anche una canzone di Gianni Morandi ossia In ginocchio da te, mai fuori posto e anzi innalzante il tasso emotivo di diversi passaggi clou, le due ore e rotti di visione sono un vero spettacolo per lo sguardo e il cuore cinefilo, attratto magneticamente da quanto accade su schermo come di rado nell’ultimo periodo. A fungere da ulteriore elemento magnetico è il cast di lusso comprendente star del panorama nazionale, a cominciare da quel Song Kang-ho (conosciuto anche dal pubblico occidentale per aver preso parte a titoli di successo nonché interprete feticcio del regista) che si conferma ancora una volta tra i più grandi attori della sua generazione.
Voto Autore: [usr 5]