Possibile trovare riscatto sulla terraferma lasciando a mollo il proprio corpo? Per Gilles Lellouche, spigliato regista ed attore francese, certamente sì: perciò decide di inscenare nella sua commedia Le grand bain (da noi tradotta poco elegantemente in Sette uomini a mollo), presentata fuori concorso al Festival di Cannes 2018, una squadra di nuoto sincronizzato maschile, formata da sette improbabili atleti, tutti quarantenni e cinquantenni, fuori forma, fuori posto nel mondo, fuori da ogni canone mediamente positivo, con vite-zavorra da rimettere in sesto, indoli particolari, vissuti traumatici, fragilità spiccate, sette anime casualmente incontratesi nella piscina di una non meglio specificata città francese, protagonisti di questa odissea della rivincita.
C’è Bertrand (Mathieu Amalrich) senza impiego da due anni, depresso con psicofarmaci al seguito, una moglie incredibilmente forte e saggia che ha fiducia in lui e due figli da crescere; Laurent (Guillaume Canet), chiuso, pignolo, ipersuscettibile, in crisi con la sua compagna, un figlio troppo timido con cui dialogare, una madre anziana che gli vomita contro atroci cattiverie senza neanche rendersene conto; Marcus (Benoit Poelvoorde) che vende piscine a non si sa bene chi, imprenditore incapace di far affari, prossimo al suo quarto fallimento aziendale; Simon (Jean-Hughes Anglade) che sogna di diventare un rocker, pur non avendone la stoffa ed ora nemmeno l’età, lavora in una mensa scolastica, ogni tanto canta e suona nei centri per anziani, vive in un camper, ha una figlia adolescente a cui vuole molto bene, ma che mal sopporta il suo modus vivendi; Thierry (Philippe Katerine, premio Cesar 2019 come miglior attore non protagonista proprio in questo film) guardiano della piscina locale, anima semplice, spostata poco più oltre la comune normalità, divoratore di dolcetti, con incredibili doti di ascolto ed una spiccata sensibilità.
A queste cinque unità si aggiungono un imponente nero, che parla solo la propria lingua, un innocuo trentottenne che si sente più anziano di tutti gli altri ed un infermiere di case di cura abituato a trattenere il fiato quando accudisce i suoi anziani pazienti: così la squadra è al completo.
Ad allenarli ci sono Delphine (Virginie Ephira), ex campionessa di nuoto sincronizzato in coppia, che dopo esser stata costretta ad interrompere la propria brillante carriera per un grave incidente occorso alla sua compagna, ha conosciuto l’alcool, la delusione amorosa e ha ripreso coraggio ed equilibrio solo grazie all’insegnamento ed Amanda (Leila Bakhti, vista nel più recente Parlami di te), la sua ex-compagna, severissima insegnante in sedia a rotelle che la affianca a metà strada, ricomponendo l’antica amicizia e spingendola a cercare nuovi obiettivi. E di fatto il traguardo che il maldestro team si è imposta non è da poco: vincere una gara internazionale che si svolge in Norvegia, valida per il mondiali di disciplina.
La voce narrante è quella di Bertrand; ci avverte subito ad inizio commedia che la sfida è far entrare un cerchio in un quadrato e viceversa: come riuscirci senza didascalismo? Impresa non semplice, eppure ben affrontata dall’intuizione di Lellouche, che mette davanti alla macchina da presa corpi maschili imperfetti ed incerti, età avanzate, capelli radi e bianchi, nessun modello vincente da pubblicità, nemmeno casi umani da cronaca lamentosa, solo anonimi cittadini in affanno con il resto del mondo.
I loro corpi così come la storia di ciascuno emanano segnali di positività inconsapevole, in opposizione aperta all’imperante body shaming (femminile e maschile) dei giorni nostri. Le silouhette sono mostrate nella loro totale inadeguatezza fisica, eppure in una progressiva rinascita collettiva, meta auspicabile anche per chi dalla società sembra prendere più schiaffi di altri, chi viene isolato, chi non riesce, chi come i protagonisti ha il marchio dell’inutile.
La piscina diventa quindi un neo confessionale, una tana di perdenti, un rifugio perfetto in cui galleggiare sopra le pesantezze e le ferite quotidiane, unico luogo in cui si assume un peso specifico inferiore a quello corporeo e le anime stesse sembrano trovare più leggerezza rispetto al proprio vissuto. Così il passato si colloca e il futuro può tornare a prendere forma, c’è spazio per aprirsi, per pensare liberamente, ci si riscopre solidali e compagni, uniti insieme dallo stesso irrealizzabile sogno, tanto più coinvolgente quanto più spericolato, ambizioso ed impossibile.
Esaltazione del valore salvifico dello sport e della sincerità reciproca, qualità purtroppo sommersa nella normale comunicazione comune, mentre ancora una volta si sottolinea l’importanza di permettersi di crollare come step fondamentale per ogni ripartenza.
Le gran bain inventa niente: siamo ben abituati a storie in cui rialzarsi appare cosa possibile anche per chi parte svantaggiato in partenza; lo sport di per sè redime ogni anima e la disoccupazione è terreno fertile di riscatto. Ricordiamo i famosi unemployed inglesi improvvisati spogliarellisti, stravincitori di simpatie in critica e pubblico nel Full Monty del 1997, diventati baluardo di un’epoca, di un diasgio trasformato, e delle epic win stories, vittorie di eroi storti, maldestri ed empatici. Qui l’ambientazione prescelta risplende, però, di fascino ed umorismo, chiedendo alle forme maschili di piegarsi ad una disciplina da sempre femminile, ad una grazia che sembra non appartenergli, ad un dinamismo fisico e filosofico che è quanto più lontano dai sostrati dei sette “atleti”.
Il loro allenamento è uno scambio continuo di opinioni, un appoggiarsi reciproco, consapevole ed inconscio, portato avanti tra letture di brani ad alta voce, estenuanti saune, gare di apnea, balletti acquatici, sfilze di parolacce, sfiancanti corse in montagna. Sono bellezze al bagno simboliche, in cui ognuno è disposto a mettersi in gioco perché ha ben poco da perdere, ed un’autostima da ricomporre. Su ciascuno pende il rigore di un mondo lavorativo ed umano distratto, spietato, calcolatore e giudicante: la piscina annienta tutti questi tratti negativi, li disperde in acqua, insieme alla paura e all’ansia di vita che accompagnano i nostri sette.
Il ritmo delle vicende non è sempre all’altezza delle aspettative, alcune lunghezze non appaiono del tutto giustificate, sebbene il finale, non sciolto, nelle immagini tra onirico e verosimile, nelle luci che passano da albe a neon da discoteca, ad accesi fari teatrali, possiede del bello, oltre la sua metafora, descrivendo il carattere struggente della malinconia di certo ritorno alla normalità forse ritrovata, quell’inspiegabile atmosfera da giorno dopo la vittoria, qui resa molto meglio di come spesso si tenta di fare.
Fiore all’occhiello sono i protagonisti, dai volti rubati ad un album di caratteristi, la cui complicità tiene insieme una dinamica fin troppo informale, che subito entra in area sensibile in modo disinvolto; forse eccessivamente cercata la costruzione di destini in crisi per intrecciare una perfetta-imperfetta rivalsa, mentre il sapore di favola finale è un bluff voluto che auto-smaschera il cinismo dilagante. Lellouche si appoggia su un umorismo amaro, capace di esplodere e di sussurrare con intelligenza e fisicità di classe, senza strafare nè perdere forma. La dignità sta in una medaglia d’oro, anche solo sfiorata: le sfide con se stessi sono spesso un’ipoteca sulla propria felicità; e questa, in mancanza di una formula esatta, è pur sempre una preziosa indicazione.