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The Boys In The Band

Dopo la serie Hollywood il produttore Ryan Murphy e il regista Joe Mantello tornano a esplorare l’influenza di personaggi omosessuali dietro e davanti lo schermo con il film, sempre distribuito da Netflix, The boys in the band. The boys in the band non è infatti semplicemente un remake del film del 1970 diretto da William Friedkin, intitolato in italiano Festa per il compleanno del caro amico Harold, ma soprattutto un secondo adattamento della pièce omonima scritta da Mart Crowley, al quale il film è dedicato.

Crowley è morto il 7 marzo di quest’anno, all’età di 84 anni, dopo aver fatto da consulente proprio per questo film, come evince dal corto documentario The boys in the band – Something Personal, che racconta il retroscena del nuovo adattamento e dell’opera teatrale andata in scena nel 2018, a esattamente 50 anni dall’uscita dell’originale. Infatti, Mart Crowley scrisse The boys in the band nel 1968, un anno prima dei moti di Stonewall, che sono stati l’evento scatenante della rivendicazione dei diritti degli omosessuali. Da pièce Off-Broadway ha poi accresciuto la sua fama di cult queer grazie anche all’adattamento cinematografico, diretto da William Friedkin, regista che non si è tirato mai indietro davanti ad argomenti anticonvenzionali e alle successive polemiche (famosa fu quella per il film Cruising, che trattava sempre di omosessualità). E fare un film a tutti gli effetti hollywoodiano con dei personaggi omosessuali e un cast a maggioranza omosessuale era sicuramente un gesto provocatorio e all’avanguardia, che ha portato in avanti l’orologio della visibilità LGBTQ+ al cinema.

Il cast del film originale

Non solo, appunto, perché è stato il primo film hollywoodiano ad avere come protagonisti assoluti uomini dichiaratamente omosessuali, ma anche e soprattutto per il ritratto onesto e a tutto tondo di tali personaggi, insigniti di dialoghi taglienti e irriverenti dati dalla fresca e dinamica scrittura di Crowley. Fino ad allora infatti, i personaggi omosessuali al cinema avevano poche sfaccettature: o erano dei villain dalla mente deviata appunto per la loro sessualità (Nodo alla gola), o erano macchiette, o subivano il duraturo trattamento denominato bury the gays, un filone molto produttivo che perdura finora di far soffrire e addirittura eliminare i personaggi gay (Quelle due). Per la prima volta, The boys in the band portava in scena vere vite di veri uomini omosessuali, in modo irriverente e sfacciato, ma allo stesso tempo manifestando le loro contraddizioni e i loro ostacoli, dentro loro stessi e nella società. Ha portato dunque, sia dentro che fuori la scena, persone tenute apposta invisibili alla visibilità, ed è proprio questo uno dei temi dell’opera.

Ispirato al carattere di suoi veri amici, Crowley usa la commedia teatrale come ritratto onesto e personale di cosa vuol dire essere omosessuale negli anni ’60, ma anche come rivendicazione appunto dell’esserci. Micheal, il protagonista, in questa versione interpretato da Jim Parsons, famoso per il suo Sheldon di Big Bang Theory, è un alter ego dello stesso Crowley che con lui si identifica. Howard è allo stesso tempo ispirato al suo miglior amico dell’epoca, il ballerino e coreografo Howard Jeffrey, che lavorò anche con Barbra Streisand ed è possibile vederlo in alcune scene di Hello Dolly e di Funny Girl. In questa versione è interpretato, magnificamente, da Zachary Quinto. Il resto del cast vede facce più che altro televisive e tutte appartenenti ad attori dichiaratamente gay: Matt Bomer, che ha già lavorato con Mantello e Murphy per The Normal Heart, Andrew Rannels, conosciuto soprattutto per il suo ruolo ricorrente in Girls, Charlie Carver, che debuttò nella serie Teen Wolf, Tuc Watkins famoso per Desperate Housewives. Robin de Jesus, Brian Hutchinson e Micheal Benjamin Whashington sono invece attori off-broadway, e la differenza con i colleghi televisivi si vede.

Micheal (Jim Parsons) e Donald (Matt Bomer)

Ambientato praticamente tutto nell’appartamento di Micheal, come da pièce, The boys in the band segue una serata tra amici omosessuali che, destabilizzata dall’arrivo di Alan, vecchio amico etero di Micheal che non sa nulla del suo orientamento sessuale, si trasforma in un gioco al massacro, in cui l’unico a uscirne veramente sconfitto è lo stesso perpetratore del gioco. Il film del 2020 mantiene praticamente intatta la sceneggiatura originale, che, a distanza di 40 anni, mantiene ancora la sua forza e la sua freschezza, specialmente nei dialoghi brillanti. Sicuramente però, in pieno stile Ryan Murphy, spinge il pedale sugli aspetti più melodrammatici e decadenti dell’originale, buttando al vento le sottigliezze delle presentazioni iniziali dei personaggi e mostrando fin dal principio tutti i conflitti che si andranno poi a evolvere nel corso del film. E quindi la solitudine di Micheal è esagerata dai suoi sguardi indugianti sul corpo di Donald, il comportamento promiscuo di Larry è continuamente sottolineato. Ciò che nel film originale era sapientemente tratteggiato in favore di un quadro collettivo, qui viene invece pesantemente sottolineato per far emergere i personaggi individuali, in particolare appunto Micheal, la cui parabola è molto più corta di quella del Micheal del film del ’70, in quanto fin dall’inizio è visto come antieroe tragico, solo, inacidito e isterico, mentre nell’originale la sua fredda compostezza si sgretola pian piano ma immancabilmente dopo l’arrivo di Harold.

Come lo stesso Crowley affermava, la vera forza oppositiva, come anche nella sua vita, era appunto quella tra Micheal e Harold: Micheal è oppresso dai suoi stessi sentimenti contrastanti di omofobia internalizzata, mentre Harold è la bocca della verità, onesto e superiore rispetto ai bassi sconvolgimenti umani. Micheal invece ne è totalmente immerso e sballottato. Tra i nove uomini della commedia, Micheal è infatti l’unico che non sa chi è e quindi dubita di conseguenza degli altri, in particolare di Alan, altra incognita che però alla fine sceglie la sua strada. Attorno a lui, Emory, gay effeminato che non riesce a fingere di essere altrimenti; Donald, giovane intellettuale; Larry, promiscuo e poliamoroso; Hank, che ha lasciato la moglie per stare con Larry; e Bernard, che ha salda la sua doppia identità di nero omosessuale.

Andando sicuramente, per forza di cose, a diminuire la forza irriverente e addirittura a tratti la caustica ferocia del film originale, l’operazione di Mantello e Murphy è qui diversa e duplice. Da una parte, non vogliono costruire un dramma destabilizzante e provocatorio, che sarebbe sicuramente anacronistico, ma anzi costruiscono un melodramma ricco di pathos e di nostalgia che dialoga direttamente con l’operazione originale. The boys in the band è un omaggio all’opera originale e a quello che ha significato, ma anche e soprattutto un monito, che dove siamo adesso è stato grazie a quello che questi personaggi, e i loro alter ego reali, hanno dovuto subire. E quindi tutta la patina patetica del film acquista ancora di più valore.

I personaggi sono gli stessi, l’ambientazione è sempre il 1968, ma lo sguardo è nettamente diverso. Non sono, come all’epoca, personaggi che ritraggono uomini contemporanei che devono lottare per farsi veder e rispettare con le proprie debolezze e i propri lati oscuri, che devono confrontarsi con l’elemento della società eteronormativa ( ovvero Alan) quando questa piomba in casa loro. Ritraggono uomini che certamente si sono dovuti confrontare con loro stessi e con la società. Ma, sicuramente, le stesse difficoltà, gli stessi conflitti interiori sono ancora attuali. La differenza è che ora c’è la possibilità di un mondo diverso. E quindi proprio per questo è così importante soffermarsi sui flashback di ognuno dei personaggi, per ricordare i momenti di fatica e per commemorare la strada percorsa.

Zachary Quinto racchiude perfettamente l’essenza di Harold, e catalizza la scena fin dalla sua presentazione per metonimie dei dettagli dei suoi gesti fino alla sua uscita. Jim Parsons invece risulta eccessivo nel suo ritratto di Micheal, e il suo personaggio perde forza a causa della sua recitazione molto urlata e molto poco sottile.

Marianna Cortese
Marianna Cortese
Attualmente laureanda in Lettere Moderne, ho sempre avuto un appetito eclettico nei confronti del cinema, fin da quando da bambina divoravo il Dizionario del Mereghetti. Da allora ho voluto combinare cinema e scrittura nei modi più diversi e ho trangugiato di tutto: da Kim Ki-Duk a Noah Baumbach, da Pedro Almodovar a Alberto Lattuada. E non sono ancora sazia.

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