Probabilmente la pena del contrappasso per un uomo che fonda il proprio successo sull’eloquenza, sulla capacità di affascinare, inchiodare, persuadere, distrarre o distruggere con mente ciclicamente cinica e lingua allenata, affilata ed instancabile, consiste nel privarlo proprio della sua arma principale ovvero la parola; così Parlami di te, titolo originale Un homme pressè, ritrae un manager di un’ importante azienda automobilistica, felicemente stressato dall’iperattività che la sua funzione gli permette e gli impone, dettar legge con i minuti contati, il giudizio facile, i destini altrui in pugno, comodamente seduto tra i vincenti.
A quest’uomo, la vita fa uno sgambetto non da poco: infatti Alain (Fabrice Luchini) si accascia nella macchina del suo autista, con un ictus in atto. Ne esce interamente incolume esclusa la capacità di parlare, ossia il pane del suo lavoro: deve perciò intraprendere pur non volente, un percorso di riabilitazione guidato da Jeanne (Leila Bekhti), ortofonista specializzata: l’incontro tra i due, la loro diversità, i rispettivi fantasmi, si incrociano e si condizionano reciprocamente, ognuno con i propri irrisolti da sciogliere e il resto della vita ancora da scrivere.
L’esperienza restituisce un padre cambiato a sua figlia, Julia (la splendida Rebecca Marder) che ne ha patito l’assenza nei momenti più bui attraversati dall’ infanzia in poi, e una figlia adottiva al volto della madre reale, dissolvendo la durezza, la solitudine e il sospetto, che la tenevano in disparte dalla vita.
C’è un fatto di cronaca reale alla base della commedia del regista Hervè Mimran: è la storia di Christian Streiff, ex-amministratore delegato di Airbus e di PSA Peugeot Citroen, debilitato fisicamente per un ictus avuto a cinquantaquattro anni, costretto a nascondere l’avvenuto malore per non perdere la posizione, ugualmente licenziato perché non più adatto all’importante funzione, capace però di rimettersi in piedi attraverso riabilitazioni e fisioterapie e tornare ai vertici della sua carriera in altra azienda.
Odissea raccontata nel libro J’étais un homme pressé: AVC, un grand patron témoigne, a cui si ispira il film, e che sullo sfondo pone una critica al meccanismo tritacarne del mercato del lavoro capitalistico, dove in nome dei profitti, e della regola squalo mangia squalo, non esistono affetti e non si guarda in faccia a nessuno, indipendentemente dal ruolo ricoperto, dalla sventura capitata o dalla debolezza contingente che si sta attraversando.
Così Alain, rappresentante di quel mondo, da quello stesso mondo è fagocitato, senza poter fiatare, poiché la parola, illusione e menzogna per antonomasia negli ambienti da cui proviene, è sconvolta: assistiamo alla nuova lingua pseudo-inventata che l’uomo si ritrova a sciorinare per tentare di riportare la propria situazione alla normalità, senza capire che quella normalità in nulla è da recuperare.
Il film si lancia con ardimento, spasso e sostenuta leggerezza, nella costruzione di un linguaggio nuovo, fuoriuscito da un’avanguardia poetica, da un assurdo teatrale, da una decomposizione beckettiana, più che da una malattia seria: mescola, storpia e riconnota le parole di uso comune, in discorsi familiari o di senso comune di cui si intuisce il senso pur essendo fuori posto.
Buonanotte è buongiorno, apocrifi è ipocriti, garzie è grazie, ed ogni termine che non trova spazio, filo, ricordo nel muscolo o nel neurone può essere raggiunto ed afferrato per altra strada, pensando ad analogie, a simboli, alle cose care o all’arte figurativa, in una parola a tutto ciò che ingiustificatamente possiede meno importanza nella quotidianità.
Un po’ come accade nella vita: c’è più di una strada per perseguire l’obiettivo, più di una forma esso può assumere, più di una volta esso può cambiare; è il naturale evolversi dell’equilibrio individuale. Bisogna solo darsi tempo, accettare di prendersi del tempo, macinare strada, continuare a camminare, come pellegrini viaggiatori diretti a Campostela, non a caso una delle mete del protagonista.
Per Alain quanto gli capita è un altro pianeta: si ritrova a fare i conti con un se stesso impotente, estraneo, che si perde per strada, che deve avere con sé un cane ed un quaderno per ricordarsi dove si trova e come tornare a casa, che fronteggia una figlia non più bambina, praticamente sconosciuta, che non è richiamato al telefono da chi credeva suo alleato, che deve affrontare lo studio della propria lingua madre come un bambino ai primi rudimenti, che deve sostenere colloqui di lavoro improbabili o umilianti al centro impiego come un quisque de populo.
In questo status pirandelliano, concreto ed esistenzialista, si alternano malumori, speranze malriposte, secche delusioni, amarezze ed insperati gesti di luce ed apertura, iniziative tramite cui Alain impara man mano a riprendere contatto con la parte sana di ogni essere vivente.
Racconto sciolto e brillante, in cui si alternano tenerezze, divertimento e accenti commoventi; ci si bea di musiche pop note, di assoli al piano, del nostalgico As time goes by cantato da Dooley Wilson in Casablanca, film rifugio preferito dal protagonista, per cercare il proprio angolo di pace.
Basato sulle solide spalle di Luchini, mattatore perfezionista di sguardi e amante storico della parola, teatrale e non, abituato a ruoli in giacca e cravatta e all’arte retorica, come dimostrato anche nel recente Alice e il sindaco, l’attore si lascia qui ammirare nella sua scardinatura terminologica divertente e significativa, mai casuale, che rende digeribile la sfortunata condizione capitatagli, esulandola dal dramma, come se galleggiasse in un sospeso stupefatto in cui la coscienza si interroga e cerca di diradare nebbie.
Ritmo indiavolato nella prima parte, per stare al passo con l’ottica di vita del primo Alain; freno tirato nella seconda, in cui è il resto del mondo, Jeanne e Julie in primis, a dettare ed influenzare tempi, modi e comportamenti della giornata.
Difficile raccontare una rinascita, uno sbaglio, un perdono, una riconoscenza, difficile perché ci si aspetta nella finzione rappresentativa di essere esaustivi in tutto e l’assolutezza sconta un intento consolatorio troppo smaccato di cui il film trabocca in modo evidente, nonostante la giustezza complessiva del cast. Smagliature di buonismo, di eccessiva facilità, di conforto non richiesto rendono innocua una vicenda di per sé non tale, ed appesantiscono un intrattenimento che poteva sviluppare senso ed originalità maggiore a partire da un’inedita rivoluzione radicale del linguaggio: manca il coraggio.