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Rashomon – La dottrina della verità negata da Kurosawa

Lo chiamavano con ammirazione “L’imperatore”: Akira Kurosawa è stato il simbolo più noto del grande cinema nipponico. Che però ha sorprendentemente contaminato con suggestioni occidentali.
Il proteiforme talento di Kurosawa, al quale è accaduto di vivere in Giappone, ha fagocitato generi molto distanti tra loro per dar luce a grandi narrazioni epiche, sempre racchiudenti il fascino intatto della fiaba, stilisticamente inconfondibili. Uno degli autori più imitati del ‘900, che ha consegnato al cinema pagine immortali di Capolavori senza tempo.
Un genio ammirato da mostri sacri come Ingmar Bergman, tanto da spingere lo svedese a girare, dopo aver visto “Rashomon”, “La Fontana delle Vergini”.

Rashomon
Iniziano le versioni dei testimoni

Kurosawa era un pessimista che credeva nell’uomo, che degli dei temeva l’indifferenza più che l’assenza, immaginandoli impotenti davanti all’insensatezza dei mortali. Ha amato la cultura occidentale nelle forme più variegate. John Ford gli ispirò western nipponici come “I sette samurai” (1954), a sua volta fonte di rimando per “I Magnifici Sette” di John Sturges, la lettura di Dostoevskij lo portò a girare “L’idiota” (1951), ma è con “Rashomon”(1950) che firma il suo primo, insuperato, Capolavoro. “Leone d’oro” al Festival di Venezia ed Oscar come “miglior film straniero” nel 1951.

Rashomon
I testimoni

Tra i capisaldi della storia del cinema per l’originalità della struttura narrativa, più volte imitata invano, il dodicesimo film di Akira Kurosawa, uscito quasi per caso dai confini giapponesi, fu all’origine sia del successo internazionale del regista, e del suo attore alter ego Toshirò Mifune, che dell’interesse dell’Occidente per il cinema giapponese, fino a quel momento praticamente ignorato.

Nell’adattare i due racconti di ambientazione medioevale di Ryunosuke Akutagawa, Kurosawa rilancia magistralmente l’ipotesi di racconto cinematografico sperimentata da Orson Welles in “Quarto Potere”: l’indagine su un mistero attraverso una serie di testimonianze diverse, e persino contraddittorie fra loro, che relativizzano il concetto di verità fino a metterlo profondamente in dubbio.

Rashomon
La moglie del samurai

La storia ruota intorno a un giallo: nella Kyoto del XII secolo, devastata dalla guerra civile e dalla miseria, il bandito Tajomaru (Toshirò Mifune) è accusato di aver stuprato una donna e di averne ucciso il marito samurai. Discutono dell’accaduto un monaco, un boscaiolo e un passante, che forniscono versioni differenti, tutte false, assumendosi ciascuno la responsabilità del fattaccio ma scaricando la colpa sugli altri due. Al dibattito partecipano anche i protagonisti della vicenda (la vittima dirà la sua attraverso la voce di una medium), ma sarà davanti alla porta della città, la porta di Rashò, flagellata da un diluvio biblico, che avverrà l’evento fondamentale per far luce sulla vicenda.

La vittima, il samurai

Appare evidente che Pirandello traspare dietro il gioco di menzogne di Rashomon, un gioiello da camera con cui lo spettatore gioca di carrello, quasi fosse una steadycam, per dar vita ad immagini dal dinamismo inusuale per quegli anni. Le pareti che abbracciano l’azione sono ora alberi delimitanti la radura in cui il bandito e il samurai lottano per la donna, ora il muro del cortile in cui si svolge il processo, infine le cortine di pioggia che impediscono di guardare oltre la porta di Rashò, sotto la quale il fatto è stato raccontato.
Kurosawa e il suo direttore della fotografia, Kazuo Miyagawa (che girò molti dei migliori film di “Kenji Mizoguchi”), stabiliscono la messa in scena attraverso varie prospettive. I tre personaggi principali sono spesso inquadrati insieme in composizioni triangolari, spesso con uno di loro in primo piano (PP), sebbene l’enfasi della composizione cambi di scena in scena. Allo stesso tempo, Miyagawa utilizza una cinepresa in continuo movimento, proprio per catturare la continuità di una scena.

Lo sguardo intenso di uno straordinario Toshirò Mifune

L’uso della Dolly e ricercati Panning riempiono l’immagine, mentre gli stessi elementi visivi assumono un significato distinto: le scene corte vengono girate in spazi aperti; i testimoni, mentre danno la loro testimonianza, si trovano su una sabbia ben pettinata all’interno di pareti bianche, mentre le scene della foresta rimangono sempre in conflitto, confuse e cariche di mistero. La foresta stessa confonde la nostra prospettiva in senso visivo, con riprese che scrutano attraverso gli alberi; la telecamera si muove attraverso i boschi, come uno spettatore il cui angolo è sempre poco chiaro con un movimento distorto del fogliame; così come quando la macchina da presa (MdP) viene puntata verso il sole attraverso gli alberi, una metafora perfetta per descrivere la nostra impressione ostruita della verità filtrata da fonti inaffidabili.
La luce luccica attraverso le foglie in splendidi tremolii, ma la nostra visione del sole è sempre distorta. Allo stesso modo, la pioggia rappresenta una distorsione visiva della verità (il boscaiolo racconta la sua storia durante un acquazzone); alla fine la tempesta si interrompe quando si arriverà a far chiarezza sulla vicenda, fino all’epilogo finale.

Una scena del film

Uno degli elementi narrativi “essenziali” che caratterizza Rashomon, che influenzerà negli anni a venire molte pellicole, sono i flashback inaffidabili attraverso i quali la memoria e la verità diventano sospette.
L’uso del flashback nel film è quantomai innovativo. Chè se c’è una spiegazione ai racconti dei testimoni oculari, alla fine non c’è una soluzione risolutiva che rivela la verità.
“I Soliti Sospetti” di Bryan Singer, sicuramente deve molto al capolavoro di Kurosawa. Per chi ha visto il film di Singer si nota, in particolare, il modo in cui vengono mostrati i flashback che non concordano con nessuna realtà oggettiva. Esattamente come avviene in Rashomon.
Lo spettatore crede che i flashback riflettono la verità, mentre in realtà sono solo un punto di vista, il più delle volte bugiardo e manipolatore.
Rashomon è un enorme specchio distorto o, meglio, una raccolta di prismi che riflettono e rifrangono la realtà. Attraverso il processo di contorsione della verità, il film ci dice che non ci si può fidare delle persone, che la verità è relativa ed esiste solo l’interpretazione soggettiva.

verità o menzogna?

La straordinaria costruzione narrativa, che assume il pubblico come detective e destinatario dell’inchiesta (da notare che il tribunale non appare mai sullo schermo, ma sembra piuttosto situato dietro la telecamera, come se la testimonianza offerta durante l’interrogatorio fosse presentata allo spettatore), la sensibilità geniale di Kurosawa (che anticipa di una decina di anni l’estremismo del racconto a più facce di “L’anno scorso a Marienbad” di Alain Resnais), il febbrile dinamismo interno della sua regia (406 inquadrature, grande ricchezza di movimenti di macchina che rincorrono, sorpassano, circondano i personaggi senza abbandonarli per un istante), l’accuratissima direzione degli attori, fanno di Rashomon il più affascinante  “cubo di Rubik” che il cinema abbia avuto sinora. Un Capolavoro che ipotizza come non esista una verità oggettiva nel mondo reale, capace di soddisfare tanto le esigenze spettacolari del pubblico popolare, quanto la necessità dei contorsionisti dell’anima e del pensiero.

Voto Autore: [usr 5]

Alessandro Marangio
Alessandro Marangio
Critico cinematografico per la RCS, ho collaborato per anni con le più importarti testate giornalistiche, da Il Messaggero a La Stampa, come giornalista di cronaca, passando poi per Ciak, Nocturno, I Duellanti (Duel) di Gianni Canova, Cineforum e Segnocinema, come critico cinematografico.

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