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Pieces of a Woman

Hanno preparato la sua stanza con dolcezza: una sedia a dondolo per poterla ondeggiare stringendola fra le braccia e le foto dell’ecografia appese adorabilmente al contrario sulla parete. Un’auto familiare e quell’emozione di sentirsi già in tre: lei misurata e di gran classe e lui barbuto e impulsivo non dovranno più sentirsi come due frammenti di mondi contrastanti, saranno un’unica scheggia di vita, libera di accomodarsi nel mondo che vorranno. Ma il ponte tra le loro esistenze non verrà mai costruito, è destinato a crollare non appena lo sguardo sembrava essere giunto sull’altra riva. “Pieces of a Woman” è la storia di rovine e avanzi, di un amore ridotto in briciole dalla genitorialità recisa e di una donna di cui restano solo inconciliabili pezzi.

Il regista ungherese Kornél Mundruczó, autore di ambizioni visionarie come “White God – Sinfonia per Hagen” e “Una luna chiamata Europa”, ci porge una seggiola in prima fila per assistere, incollati ai protagonisti, ad un dramma insopportabile, obbligandoci a restare seduti nei momenti di più fervido dolore. “Pieces of a Woman” è il suo primo film in lingua inglese e la sceneggiatura è stata scritta da Kata Wéber (moglie del regista e donna che ha conosciuto la frammentazione di quel dolore sulla propria pelle). La lingua più universale di tutte per raccontare la desolazione più intima.

Perché le traiettorie di vita interrotte non sono quelle di una donna soltanto: ogni protagonista del film, e probabilmente ogni donna dinnanzi allo schermo, ha vissuto una frammentazione. Sia questa madre integra o genitore mozzato, figlia realizzata o frutto incompiuto, ostetrica premurosa o professionista alla sbarra, sono perdutamente numerosi i cocci di sé destinati a non ricomporsi a causa delle aspettative divisive degli altri.

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La telecamera insiste su volti, corpi, movimenti. Si resta appiccicati all’affanno di Martha e Sean. Una coppia di Boston che sta per avere una bambina con un parto domiciliare. Lei è interpretata da Vanessa Kirby, la principessa Margaret di “The Crown”, bellissima ‘Vedova Bianca’ in “Mission: Impossible – Fallout” e tostissima in “Fast & Furious – Hobbs & Shaw”. Lui è Shia LaBeouf, noto soprattutto per aver interpretato il personaggio di Sam Witwicky nella trilogia di “Transformers” e per aver vestito i panni di Jerôme in “Nymphomaniac” di Lars Von Trier.

Presentato in Concorso a Venezia e prodotto da Martin Scorsese, “Pieces of a Woman” è valso alla Kirby la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Il mormorio che la vorrebbe una candidata forte per la corsa agli Oscar 2021 si fa sempre più insistente. Non si sentirà alcunché invece sull’attore LaBeouf. Dopo che il New York Times ha reso nota la causa intentata dalla sue ex fidanzata per una relazione presumibilmente abusiva, Netflix (che distribuisce il film) è corsa ai ripari cancellando il nome dell’attore dai materiali e dagli spazi promozionali.

Sean (Shia LaBeouf) per lavoro edifica ponti, enormi legami di ferro e cemento. Lo incontriamo in un cantiere edile impegnato ad incitare i colleghi. Vuole che sua figlia sia la prima ad attraversare quel ponte sul Charles River di Boston. La bambina non è ancor nata. Ma tutto è pronto ad accoglierla. Martha (Vanessa Kirby) è pensierosa e dolcemente ansiosa, alle prese con una noiosa festa premaman fra le scrivanie del proprio ufficio. È nell’ambiente protetto e vivo della loro casa che li conosciamo come coppia, come alleati dissimili intenti a comporsi in un solido nesso. È in quell’utero domestico, caldo e conosciuto, che la coppia ha scelto di far venire al mondo la loro prima figlia. Quando giunge il momento l’ostetrica da loro scelta è impegnata ad assistere un’altra nascita, ma una sostituta sta già bussando alla loro porta.

Nella scena del parto ci ritroviamo catapultati in quel salotto accogliente, in quella casa immersa nel tepore di colori caldi. Ci sembra quasi di avvertire il lieve calore dell’acqua che scorre nella vasca da bagno in cui Martha cerca di rilassare i nervi durante le contrazioni. La telecamera non abbandona mai il corpo della Kirby, nemmeno per attimo, nemmeno il tempo per riprendere fiato. La scena, ritratta in un lungo piano sequenza di circa 23 minuti, mostra il contrarsi delle membra e l’affannarsi del respiro. Mundruzcò insegue il fluire del dolore che attraversa il corpo di Martha. Sono scene potenti e fastidiose, gocciolanti di una materialità corporea alla quale non si è abituati.

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Il parto non finisce bene. Seguono dissoluzioni e tormento.

Si apre così una seconda fase filmica, quella delle sconnesse relazioni con il mondo esterno. Una fase dove i colori carezzevoli dell’interno domestico sono solo un ricordo. Gli ambienti a cui si accede sono diversi, eterogenei, freddi. La città di Boston è ghiacciata. E anche dentro si muore un po’, tra i piatti sporchi dimenticati nel lavello e gli studioli di medici in camicie bianco che non sanno spiegare cosa sia accaduto a pochi minuti dalla nascita della piccola Yvette. Un nome negato, goffamente trascritto male dall’impiegato delle pompe funebri, disconoscendone persino la transitoria esistenza.

Apatica e impenetrabile allo spettatore, la vita della coppia progredisce per rimozione. La stanza destinata alla figlia viene smantellata. Martha rientra al lavoro fra gli sguardi vuoti dei colleghi. Sean si spreca in una causa penale ai danni dell’ostetrica accusata di negligenza, mentre lascia riaffiorare il deserto emotivo su cui poggiavano le sue dipendenze. Si procede a singhiozzi, i mesi si avvicendano, e i toni dei grigi non sembrano smorzarsi. Se il primo atto è scomodamente percorso da tensione e vita, nel secondo prevalgono il torpore dell’incompiutezza di un corpo che ancora gravido non sa come adattarsi all’assenza. È il suo corpo ad esprimere in modo incontrollabile il suo dolore, in un tradimento continuo della promessa stretta con la vita.

È necessario ringraziare la sceneggiatrice Kata Wéber per non aver nemmeno tentato di edulcorare il corpo plasmato dalla maternità. Il latte materno che macchia i vestiti, la nausea, il seno dolorante, gli slip post parto. Dettagli poco aggraziati, che mal coincido con l’immagine angelicata della maternità spesso favoleggiata. Particolari ancor meno piacevoli se quella maternità è stata smentita persino dal destino.

Pieces of a Woman

“Pieces of a Woman” è un racconto tormentato, pieno si simboli e metafore relativi alla natura umana peritura e fragile e al rifiorire della vita. La sceneggiatura scritta da Kata Wéber è un’analisi attenta ai limiti del sopportabile del vuoto carnale e invisibile lasciato dalla negazione di una genitorialità tanto preparata e attesa.

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L’esperienza immersiva di “Pieces of a Woman” è resa possibile dalla lunga sequenza iniziale che ritrae il parto di Martha. Sono 23 minuti emozionati e strazianti. Non ci sono tagli, o almeno nessuna interruzione dell’azione che sia visibile all’occhio non addestrato. Avvertiamo l’eccitazione prima e la paura subito dopo. Ci sembra quasi di avvertire il suono dei tendini della mano della Kirby muoversi nel vuoto, e il dolore che sta per inglobare tutto.

Il patimento e l’ansietà della donna entrano prepotentemente negli occhi dello spettatore che si sentirà perduto nella ricostruzione degli eventi e nell’attribuzione delle colpe. Nel voler ripercorrere gli errori attribuiti all’ostetrica (Molly Parker) portata in tribunale, parrà che quel momento si sia disperso, per Martha, come per lo spettatore.

Se la telecamera si accosta al corpo di Martha senza mai abbandonarlo, nel corso del film è proprio lei il personaggio che continuiamo a non conoscere mai del tutto. Perché è solo attraverso la sua discordanza con ciò che le gravita attorno che lo spettatore deve approcciarsi ad una donna in pezzi.

Pieces of a Woman
Vanessa Kirby è Martha e Ellen Burstyn la rigida madre Elizabeth

Conosciamo nostro malgrado molto più chiaramente la rigida madre di Martha (Ellen Burstyn) per mezzo di un monologo fin troppo sovraccarico, in cui comprendiamo il suo caparbio bisogno di “rialzare la testa”. Conosciamo una sorella più interessata a ristabilire al più presto la quiete che non al benessere di Martha, e un cognato grigio e pavido (Benny Safdie – regista insieme al fratello di “Diamanti Grezzi”. Nessuno sacrifica un po’ di sé affinché questi due genitori incompiuti possano ricostruirsi.

Ciò che si ha dinnanzi agli occhi è un film di attori. Quella di Vanessa Kirby e di Shia LaBeouf sono interpretazioni forti, corporee, nervose, capaci di farci stare lì, ad annaspare tra le rovine di una storia d’amore. E tutto resto del cast contribuisce ad inquinare la ricostruzione, in modo tristemente credibile.

“Pieces of a Woman” è dramma detestabilmente umano. Insopportabile nel contorcersi del corpo e nel dilagare del dolore e smodato nell’ostentare trionfanti simboli del rifiorire della vita. Se i tempi narrativi, nella seconda parte del film, risentono dell’insistenza su metafore ovvie e di qualche dialogo chiarificatore di troppo, è pur vero che in fondo, per quanto questi simboli e chiacchiere siano ridondanti, rappresentano la nostra natura.  Siamo fastidiosamente corporei ed eccessivamente vivi, condannati alla rinascita anche dopo il crollo assordante.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Pieces of a Woman" è un film ben diretto e ben sceneggiato, capace di conferire spessore a tutti i personaggi. Alcuni monologhi corrono il rischio di apparire troppo esplicativi e le metafore di rinascita un po' ostentate, eppure questi difetti si rendono perdonabili all'interno di una narrazione che sa coinvolgere e sconvolgere per intensità e interpretazione.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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