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Padri e figlie: la recensione del film con Russel Crowe

Padri e figlie è l’omonimo titolo del romanzo che negli anni ‘80 Jake Davis (Russel Crowe), scrittore premio Pulitzer, ha dedicato all’adorata figlia Katie (Kylie Rogers), con cui divide un legame affettivo profondo ed indispensabile, reso più stretto dalla morte prematura di sua moglie, madre della piccola, in un incidente d’auto da lui causato. Il trauma lo lascia debilitato psicofisicamente: preda di attacchi psicotici simili all’epilessia, è costretto al ricovero e deve lasciare la figlia nelle mani dei ricchissimi zii, Elizabeth (Diane Kruger), che non riesce a perdonare Jake di averle ammazzato la sorella, e William, avvocato di successo.

Dopo sette mesi, l’uomo esce, riprende con sé Katie, prova a ricostruirsi una vita normale, ma le crisi psicosomatiche non sono affatto guarite ed il suo nuovo libro è un fallimento; a ciò si aggiunge che gli zii vogliono adottare la bambina, togliendola al padre, incapace di garantirle il sostegno economico e morale che le serve. In questo frangente risale la stesura “matta e disperatissima” di Padri e figlie, che vedrà la luce con fatica ed assoluta dedizione, valendo al suo autore un secondo Pulitzer postumo, poiché in uno dei suoi attacchi psicotici più violento di altri, perde la vita.

Padri e figlie

Su un livello temporale parallelo, sua figlia Katie (Amanda Seyfred) ha venticinque anni, una laurea in psicologia ed un tirocinio come assistente sociale: passa da un ragazzo ad un altro e non riesce ad amare, vittima del vuoto che i suoi due genitori, le persone che più l’hanno amata e che lei ha più amato, le hanno lasciato; forse l’incontro con Cameron (Aaron Paul), appassionato di scrittura ed in particolare dei libri del padre e il caso di Lucy (Quvenzhanè Wallis), otto anni orfana da poco incapace di parlare, possono essere la chiave per una rinascita personale della ragazza.

Tanta storia, tanto intreccio, tante celebrità, tante lacrime, tanto di tutto, in questa sceneggiatura proveniente dalla famosa black list made in U.S.A., ossia l’elenco dei progetti che tutti apprezzano, ma che ancora nessuno produce e che trova casa tra le mani del nostro Gabriele Muccino nell’anno 2015, diventando il suo quarto film su suolo americano. Con un cast stellare, composto quasi interamente da nomi di grande richiamo, si intesse una storia binaria, padre premuroso e lottatore da una parte, figlia emotivamente menomata dall’altra; entrambi in conflitto costante per vincere la parte debole e distruttiva che li porta a sabotarsi e ad allontanarsi dalla felicità, progressivamente.

Padri e figlie

Jake scrittore, precario per definizione, gentile ma fallibilissimo, distrutto dal senso di colpa per aver tradito la moglie ed averne procurato la morte nella macchina che lui guidava, in guerra con il fisico che gli si ribella contro, con una parte di famiglia che lo vorrebbe isolare considerandolo un pericoloso fallito, con il mercato della letteratura fatto di critici inutili come scarafaggi, immaturi e vendicativi, con gli Stati Uniti d’America ridefiniti Stati Uniti dei soldi, dove conta solo con quale capacità economica una persona garantirà la copertura del proprio mutuo, è la figura perfetta dell’eroe romantico mucciniano, paladino delle situazioni estreme, che si muove volente o nolente nel campo degli assoluti, tra luci ed ombre che assomigliano a quelle attraversate dallo stesso regista nella sua vita artistica e personale fatta di alti e bassi, di clamorose glorie e di altrettanto clamorose bufere.

In una New York bella e distratta, fatta di strade, ville, appartamenti e passanti indaffarati, ritratta con colori da dipinto cinquecentesco, corre la macchina da presa, con il gusto di inseguire l’azione, in carrellate dal basso verso l’alto a simboleggiare la non facile direzione che i suoi protagonisti devono percorrere, un movimento costante di risalita, mentre le inquadrature a volte girano intorno alle coppie, si allontanano, si innalzano, si cimentano in (pochi) piani sequenza metropolitani, si incollano ai volti dei personaggi, senza, a differenza del passato, strafare, disegnando così un uso delle riprese eterogeneo ed organizzato, a volte prevedibile segno del tipo di scena che seguirà, a volte sintesi intelligente di una situazione. La struttura unisce zone temporali differenti, attraversandole spesso, creando una modalità frammentata ed un po’ ripetitiva che alla lunga può stancare, laddove, in alcuni passaggi si sente forte la necessità di accorpare momenti e di proseguire nel racconto.

Padri e figlie

Quest’ultimo si sviluppa su due piani essenziali: quello attivo del padre e quello psicologico della figlia; il primo impiegato soprattutto a fronteggiare le avversità della sua vita da vedovo ed il secondo incentrato sulla difficoltà di una giovane ragazza nell’affidarsi a qualcuno, aprendo il suo cuore così lacerato  ad una nuova, sorprendente, primavera. In fondo quel libro dal titolo emblematico, composto freneticamente, in emergenza di denaro e di scampo, è l’eredità che Jake lascia a Katie: lottare sempre per ciò che si ama, cadere, rialzarsi e ripartire; così si va avanti.

Tematicamente e dal punto di vista di alcune soluzioni, viene da dire niente di nuovo sul fronte mucciniano: melodramma familiare di base, con circostanze precedenti radicali e fortemente connotate per i protagonisti come se, semplicisticamente riassumendo, tutte le disgrazie dovessero capitare a loro, disfunzionalità familiare come da prassi, alterchi in affanno per corsa precedente non sempre giustificata che ormai sono un marchio di fabbrica da L’ultimo bacio in poi, l’amore e la sopravvivenza a braccetto per darsi forza nella scalata a quella scala mobile al contrario che fatalmente è il mondo, un finale guadagnato con sangue, sudore e decine di lacrime che nella lungo sviluppo “spezzettato” perde molta dell’inquietudine.

Padri e figlie

Eppure c’è qualche scampolo di controllo in più nella resa complessiva, ed un benefico rigore recitativo di cui si avvantaggia la sostenibilità totale dell’impresa, a partire dal buon Crowe, composto ed ironico genio fragile ed amoroso cui è inevitabile non affezionarsi. Accanto a lui, gli angoli dolorosi della sempre elegante Diane Kruger, la maternità della direttrice dei servizi sociali Octavia Spencer, la luminosità naturale di Amanda Seyfred, l’incredibile tempra di gesso, sorriso e familiarità della manager Jane Fonda, lo sguardo intraducibile della piccola Quvenzhane Wallis (splendida protagonista de Re della terra selvaggia).

Il tallone d’Achille, in realtà, resta proprio la sceneggiatura, che perde spesso colpi, allentandosi e smarrendo energia: dilaga in enfasi dialogiche o reattive non richieste, a volte anche imbarazzanti e prolunga una storia che di fatto si sente o si sa, a seconda di chi guarda, come andrà a volgersi; innumerevoli brevi monologhi lacrimosi sul passato della giovane Katie ci confermano la duttilità della Seyfred, ma ci sembrano assommati a tirare il carro in una direzione già chiara, dando vita tecnicamente ad una fatica artistica inutile nei fatti. Bonariamente empatica la colonna sonora che spazia da Close to you, canzone paterna del ricordo di Burt Bacharach, a due tre parole di un Jovanotti ascoltato di sfuggita, agli accordi gentili di Paolo Buonvino: musica che abbraccia nel suo traino di pathos tutto l’armamentario scenico e lo porta agevolmente a spasso verso la pancia dello spettatore.

Padri e figlie

Riflessione sarcastica sulla scrittura, come gioia e dolore inaspettati, anche quando si pensa di avere tutto sotto controllo, perché la vita non paga spesso i meriti e ai suoi sgambetti bisogna esser pronti; accenni di psicologia infantile nelle manovre di Katie che cerca di riconquistare la fiducia perduta di una bambina. Padri e figlie è un film lontano dalla perfezione, popolare nell’empatia, che organizza bordate emotive capaci di trascinare e convincere, ma la cui troppa frequenza penalizza l’interesse e depotenzia la storia.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Jake, scrittore premio Pulitzer, vedovo e con crisi psicotiche post-traumatiche, lotta per non perdere la custodia della figlia, realizzando un libro sul loro rapporto. A venticinque anni la figlia non riesce ad amare nessuno e cerca la fiducia nel mondo con un novo incontro. Muccino al suo quarto film americano, sceglie una sceneggiatura da blacklist, che dilaga eccessivamente, ingaggia star dall'interpretazione notevole, controlla il melodramma senza rinunciarci, segmenta e reitera troppo spesso: è empatia popolare, ma, ripetuta, depotenzia la storia.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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