Mank

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Lo scorso venerdì 4 dicembre è sbarcato su Netflix Mank, il nuovo film di David Fincher, attesissimo anche in virtù della sua straordinaria storia produtttiva. Racconta uno spaccato della Hollywood anni Trenta (l’età dell’oro del cinema americano) attraverso la figura dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz. Conosciuto da tutti con il nomignolo di Mank, lo scrittore è una personalità assolutamente fuori dagli schemi: ha una parlantina affascinante quanto spesso sconveniente e non guarda in faccia nessuno, molte volte a causa della sua cronica dipendenza dall’alcol. Sposato con “la povera Sara”, Mank è uno degli sceneggiatori di punta della MGM (insieme ad altri guru del settore come Ben Hecht), ma non disdegna guardarsi intorno, partecipando a party ed eventi di altre majors, e ottenendo, tutto sommato, la stima di tutti. In modo particolare, e anche grazie al suo capo Louis B. Mayer, Mank conosce il magnate dell’editoria americana William Randolph Hearst e sua moglie Marion Davis. Il primo lo stima moltissimo, gradendo soprattutto la sua capacità oratoria sfrenata, ma Mank instaura una vera amicizia soltanto con la seconda, donna fragile e profonda, mai compresa davvero dal marito e dal suo giro. Quando, seppur ingessato dalla vita in giù per un incidente, Mank sarà chiamato a scrivere la sceneggiatura del film d’esordio di un ventiquattrenne celebratissimo come Orson Welles, attingerà molto dal suo bagaglio di conoscenze, arrivando anche a schierarsi contro il potentissimo editore. Nacque così Quarto Potere, capolavoro che fece vincere a Mankiewicz l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura e che causò un lungo contenzioso tra lui e Welles su chi fosse l’autentico padre dello scritto.

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Il film, oltre che essere ben curato nel suo bianconero d’annata, con tanto di bruciature di sigaretta a simulare la presenza della pellicola, presenta anche una storia produttiva decisamente sui generis. Scritto negli anni Novanta dal padre giornalista di David, Jack Fincher, morto nel 2003, il film era stato concepito per essere girato allora. Ma, si sa, le vie di Hollywood sono infinite, e spesso sorprendenti. Così il film è rimasto nel cassetto per quasi trent’anni, vedendo la luce soltanto quest’anno. In più, bisogna anche considerare che a Fincher piace da sempre farsi attendere (l’ultimo suo film risaliva al 2014). Molto del merito di questa produzione va dato anche, se non soprattutto a Netflix, da sempre coraggiosa e disposta a rischiare molto coi maestri che mette sotto contratto (Roma docet). Quale altra major avrebbe speso 30 milioni di dollari per produrre quello che di fatto è un film d’autore, in bianconero e certamente non per tutti i palati? Senza la spesso bistrattata casa di Los Gatos, il cinema contemporaneo non avrebbe probabilmente prodotto alcuni dei suoi film migliori. Mank è l’ennesima dimostrazione di questa dirompente quanto vincente politica di Netflix, l’ennesima pellicola di un impero che non appare nemmeno intravvedere dei limiti per il futuro. In più se ci aggiungiamo un cast stellare e in piena forma, si capisce come Mank balzi al primo posto nella classifica dei favoriti ai maggiori premi dei prossimi Oscar (premio che il regista non ha mai vinto, ma probabilmente ancora per poco). Il nuovo film di Fincher appare come il film del 2020, forse ancora più del blockbuster, uscito clamorosamente in sala in un anno come questo, Tenet.

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Non bisogna stupirsi della querelle tra Mankiewicz e Welles circa la paternità della sceneggiatura di quello che è a livello unanime considerato come uno dei film più importanti della storia del cinema. Nella Hollywood classica il lavoro collettivo dello Studio prevaleva quasi sempre sulle singolarità individuali di chiunque, dal regista allo sceneggiatore. Il dominus indiscusso di ogni film, quello che aveva l’ultima parola su tutte le decisioni, era il produttore, che spesso assumeva più professionisti per ogni ruolo (talvolta all’insaputa l’uno dell’altro) per avere maggiori garanzie circa la qualità del prodotto finale. Non si andava a vedere un film di un regista, ma solo un film di una major. Il film d’esordio dell’enfant prodige della Hollywood dell’epoca, segnò una netta rottura già sotto questo aspetto. A Welles vennero affidati i pieni poteri sul soggetto, la sceneggiatura e la regia del film, con un contratto mai visto prima, che puntava a rilanciare una major in decadenza come la RKO, attraverso quella voce giovane ma dirompente, che in radio aveva fatto allarmare gli Stati Uniti dando la notizia dello sbarco degli alieni sul suolo americano. Il fatto che il vero padre della sceneggiatura sia stato, come si vede senza mezzi termini in Mank, Mankiewicz e non Welles, eppure accreditato e premiato come sceneggiatore, era assolutamente ininfluente per la produzione. Contava il prodotto finale.

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Quello che, semmai, colpisce, è che Fincher abbia deciso non di raccontare questa diatriba, famosissima per tutti coloro che conoscono anche solo a livello elementare la storia del cinema, ma tutto quello che viene prima di Quarto Potere, e che, in qualche modo, ha contribuito a crearlo. Mank procede per salti temporali, alternando al presente, con un Mankiewicz lungodegente costretto a letto e obbligato a lavorare sulla sceneggiatura del primo film di Welles in una casa in campagna, svariati flashback che ripercorrono praticamente l’intero decennio d’oro del cinema statunitense, dalla crisi successiva al crollo della Borsa del 1929, ai discorsi semi seriosi sull’ascesa di Hitler in Germania. Il protagonista è sempre presente in ogni momento importante di quest’epoca, come a dimostrarci quanto contasse il farsi notare in un settore così elitario. Ma più che dare una cronologia di eventi precisa, questi flashback hanno semmai i connotati di vere e proprie fantasmagorie, che per certi aspetti anticipano anche il futuro. Non si capisce mai quanto ciò che si vede sia stata una reale esperienza dello sceneggiatore e quanto sia stato semplicemente immaginato da quest’ultimo. Mank per larghi tratti ricorda un’opera teatrale di Ibsen o un romanzo di Dickens. Mankiewicz non è solo il protagonista della vicenda, ma è quasi il centro di gravità permanente per tutti gli altri personaggi e tutte le altre storie presenti nel film. Non solo Fincher non rappresenta, se non accennandola alla fine, la querelle tra Mankiewicz e Welles, ma esprime l’assurdità di tale diatriba, affidando al primo il più totale e assoluto protagonismo nella vicenda. Alla perfetta resa di un personaggio straordinariamente potente contribuisce anche l’ennesima eccellente prova attoriale di Gary Oldman, lanciatissimo nella corsa a quella che sarebbe la sua seconda statuetta come Miglior Attore Protagonista, dopo il suo Winston Churchill de L’Ora più buia.

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Mai come nel caso di Mankiewicz vita personale e finzione cinematografica si fondono insieme in un tutt’uno meraviglioso. Così, lo sceneggiatore suggerì a Welles quella storia e accettò di scriverne la sceneggiatura perché letteralmente ossessionato dalla potenza, a tratti ingiustificata, che il suo conoscente Hearst aveva sempre sciorinato. Così, la tenuta di San Simeon (“ciò che Dio avrebbe costruito se solo avesse avuto i soldi”) dove viveva il magnate, diventa il leggendario podere di Xanadou, “la più grande abitazione privata del mondo”, dove si ritira l’anziano Charles Foster Kane. Entrambi amano lo sfarzo, l’opulenza e il kitsch (come dimostra l’autentico zoo che accomuna i giardini di entrambe le ville) ed entrambi possiedono un lato enigmatico e crepuscolare, per non dire maledetto. Hearst, interpretato da un ottimo Charles Dance, appare perennemente ossessionato dal potere. Ma non cerca semplicemente il consenso, a quello ormai è abituato, lui desidera essere amato da tutti quelli che lo circondano. Kane non riesce mai a rivelarsi completamente nel film e manifesta come unico ed estremo desiderio, la sua slitta Rosebud, metonimia della sua infanzia mai davvero vissuta. E Mank sembra essere l’unico ad essersi accorto di ciò, o comunque il solo ad ammetterlo. Questa terribile brama di essere amato fa sì che non sappia più amare davvero, tanto da offuscare una donna straordinaria come la sua Marion Davis, che nel film diventerà la cantante Susan Alexander, come lei considerata solo una bella statuina da esibire per fare colpo sugli altri. Se il personaggio di Susan è considerato uno dei migliori personaggi femminili della storia del cinema, si capisce che grande donna sia stata la sua ispiratrice, quella Marion Davis sempre tacciata come mediocre attrice raccomandata dal marito, ma che, segretamente e di propria iniziativa, di fatto approvò un film dichiaratamente contro di lei e il suo consorte, soltanto perché esso era un grande film. Quello di Marion è il personaggio più struggente del film, e la sequenza del pic-nic con protagonisti lei e Mank, dove si assiste alla “resa dei conti” sulla sceneggiatura scomoda ormai conclusa, è il genio di Fincher, con uno scambio di battute finale scritte in calce che rimarranno allungo nella memoria. Sensazionale, in questo senso, è anche la prova di Amanda Seyfried, che non aveva mai fatto percepire doti d’attrice così convincenti.  

Tutto nel film di Fincher è costruito per essere messo in parallelo con il film di Welles, dalle ambientazioni alle scelte di regia e montaggio e alla fotografia, fino alla comparsa dell’Orson Welles di Tom Burke, talmente somigliante all’originale da far pensare alla resurrezione. Ma più che un semplice paragone, questa ricercata corrispondenza tra pellicole, assume i connotati di dimostrazione dell’importanza che l’America degli anni Trenta in generale (essendo Hearst certamente il più preclaro esempio di dominatore della scena statunitense dell’epoca) ha avuto nella scrittura di quel capolavoro assoluto che è Quarto Potere. Mank è quasi un sogno attraverso il quale, però, viene raccontata la realtà più autentica meglio che in un qualsiasi documentario. Esattamente come Mankiewicz, anche Jack Fincher era giornalista, e il piglio utilizzato da entrambi nella scrittura è fortemente giornalistico. Le immagini create da Fincher emozionano, ma non in quanto prese nella loro singolarità, ma in virtù dell’insistenza con cui sceneggiatore e regista giocano con questo formidabile ping pong tra passato e presente, all’insegna della bellezza che solo il cinema sa dare. Ne va da sé che questo discorso valga soltanto per gli spettatori che hanno visto e di conseguenza amato il film di Orson Welles. In caso contrario, si prega il gentile pubblico di recuperare questa lacuna prima di guardare Mank, pena la più totale incomprensione di un film riuscito, che merita di essere visto per l’incredibile messinscena creata da Fincher & Company.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Fotografia
Emozioni

SOMMARIO

Tra Ibsen e Dickens il nuovo film di Fincher rende omaggio ad uno dei massimi capolavori della storia del cinema come Quarto Potere, raccontandone la genesi.
Redazione
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