La gravità come legge generale della fisica che attrae i corpi tra loro in base alle rispettive masse e la gravità come qualcosa di radicato e pesante che si oppone alla leggerezza di vita, di stile, di carattere. Da entrambe le definizioni trae significato l’ultima favola del regista Marco Bonfanti, già autore del fortunato docufilm l’ultimo pastore (2012), e del più recente e delizioso Bozzetto non troppo (2016): il suo uomo senza gravità intreccia fantasia e destino in una storia semplice di scoperta ed accettazione di sé e dell’altro, osteggiata dalla violenza esplicita ed implicita giornaliera, dal pregiudizio sulla diversità e dalla mancanza di empatia che disturba il tempo in cui ci ritroviamo a vivere, inquinandolo e sprecandolo in modo assai banale.
Dopo il debutto all’anteprima della Festa del cinema di Roma 2019, l’opera conosce una troppo breve distribuzione in sala ed approda sulla piattaforma di Netflix. Si ispira apertamente all’estro di Italo Calvino, ai suoi personaggi immaginifici e metaforici che raccontano sempre oltre le loro bizzarre vicende, in particolare al Barone rampante, l’uomo che viveva sugli alberi senza toccar terra e al Visconte dimezzato sorta di super-eroe fisicamente scisso a metà; tramite queste suggestioni il film disegna la possibile-storia-impossibile di Oscar (Elio Germano) nato con la caratteristica particolare, inverosimile eppur concretissima, di non soffrire la gravità come gli altri esseri umani.
Per cui il bambino svolazza spontaneamente verso l’alto come un angelo, il soffitto della sua camera è tappezzato da coperte e materassi, guarda appoggiato all’aria la tv con il suo cartone animato preferito, Batman, e per camminare normalmente deve portare sempre indosso pesi consistenti: il suo unico, prevedibile, sogno è uscire.
Infatti la madre Natalia (Michela Cescon) e la nonna Alina (Elena Cotta), entrambe umili lavoratrici, intimorite dalle reazioni e dai commenti che la piccola cittadina riserverebbe al bambino, già figlio di padre ignoto, cercano di crescerlo in casa, limitando al massimo i contatti con l’esterno, con la scuola e con i coetanei.
Ma un giorno Oscar incontra Agata (Silvia D’ Amico), bimba saputella con il mito di Raffaella Carrà, che scopre per caso la dote del bambino, gli regala uno zaino rosa pesante da portare con sé così da permettergli di uscire quando vuole e promette, con la coerenza che possono possedere i suoi cinque anni, di non rivelare mail quell’abilità magica: diventerà la sua prima amica e il suo primo ed unico amore, anche quando il ragazzo crescerà e sarà costretto a rifugiarsi in montagna per non creare sospetto, oppure si catapulterà nel mondo della televisione nel tentativo di esprimere se stesso e smettere di nascondersi, oppure quando ancora abbandonerà tutto, fino a ritornare alle sue origini, laddove il miracolo ha avuto inizio. Stavolta non più solo.
Con il suo cast di tutto rispetto, a partire dal protagonista Elio Germano, su cui è difficile dir male, e che qui si ritrova a giocare con il paradosso di dar corpo a gambe che ignorano la gravità scendendoci a patti solo artificialmente, per arrivare alla Cescon, dolce, spiantata, risoluta animella del nord, che ha dalla sua l’intuito materno, ma non la scienza dell’istruito, il film poggia su una struttura narrativa molto classica, che ha il difetto di elidere troppo spesso archi temporali, comportando burberi cambi pagina, parzialmente distraenti, ma si fa perdonare grazie al realismo magico di uno spunto felice e carismatico con cui si può far facile allegoria.
Si offre infatti allo spettatore un nuovo prototipo di anti-super-eroe, non fortunato, impacciato, che non vive bene la propria virtù segreta, che non potrà salvare il mondo e nè fermarne la malvagità, che non finisce sotto i riflettori felice e contento e dista anni luce dalle mitizzazioni americane, dalle imprese sensazionali e dai fumetti famosi.
La parabola di Oscar è apparentemente discendente ed internamente iperbolica, una traiettoria che passa dal vero al falso e poi torna al vero, mentre, durante il tragitto, il personaggio aspira solo alla normalità troppo a lungo negatagli, seppur in buona fede, all’amore, al calore di una vita qualsiasi, senza visibili effetti speciali.
Facile immedesimarsi in un protagonista che ha il mondo contro, un bambino resistente, responsabile e poetico, a cui non smettono di brillare gli occhi per le cose più semplici ed autentiche, come fosse un neo-Quasimodo senza gobba ma con identica voglia di vivere.
Bonfanti, lucido sognatore, creativo radicato, disegna non senza ingenuità una sua specie di Pinocchio, (frammentato come quello garroniano, ma meno cupo), qui rinato senza peso, costretto a camminare su una terra grave che non gli appartiene, nè comprende, che gli sfugge da sotto i piedi come la cattiveria, l’approfittamento, lo sfruttamento, le piccole grandi miserie che lo circondano ingiustamente. Il suo strano Batman, non ha colori scuri, né maschera, né mantello, ha imparato a parlare la lingua dei terrestri, ma non è mai stato basso e greve come loro.
Gira l’Italia il suo Oscar, nome importante per un bimbo cresciuto come monstrum da non far vedere, con le sue piccole-grandi avventure, lo zaino rosa sempre più liso, feticcio di un incontaminato ed ideale legame affettivo, la testa infarcita di romanzi e storie fantastiche lette sui libri, suoi migliori amici, libri tra cui vorrebbe un giorno ci fosse anche la sua incredibile storia, modello e speranza, forse, per qualche altro ultimo storto nato in chissà quale parte di mondo; arriva fino in Francia, varcando i confini del paese che l’ha messo da parte, nel tentativo di trovare uno spazio per se stesso, diventando il “fenomeno da baraccone” più quotato, la gallina d’oro da spremere e blandire, identica condizione in cui si ritrova più volte lo stesso burattino di Collodi nel teatrino di Mangiafuoco, nelle mani del Gatto e la Volpe o tra le mura del Paese dei balocchi; ed è ritornando indietro, ancorandosi ancora di più a terra, su una carrozzina, in una nuova città, con un nuovo impiego, in una diversa prospettiva che il ragazzo re-incontra il volto delle sue origini e con esso il cuore sperduto, messo a tacere, immobilizzato da tanta comune gravità.
Dunque Oscar è romantico, ingenuo, fatto di purezza fragile e risoluta, meno debole di ciò che si può pensare, capace di trarsi dai guai come si può credere accada solo nelle favole e solo a chi, dal fango, non si è lasciato compromettere l’animo.
Così, pur senza portare un mordente degno di lasciare una più ampia ed amara riflessione, ed un finale che in questa mancanza perde un po’ carattere, Bonfanti resta fedele alla propria narrazione autoriale che non appesantisce mai la gravità esistenziale con un carattere morale o descrittivo, ma prova a collocarla tra mito dell’infanzia e cinica realtà, come fosse un miracolo che ha bisogno di testa e tempo per trovare equilibrio ed arrivare al pubblico senza l’apparenza di qualcosa che ha sbagliato indirizzo.