Sfrontati, amorali, infallibili. Sono così i killer che abbiamo imparato a conoscere sul grande schermo. Silenziosi e indifferenti. Un cliché narrativo seducente, che ha reso molti criminali intrappolati sul grande schermo tanto misteriosi quanto irresistibili. “Mr. Long” rientra a pieno titolo in questa categoria. È spietato, affascinante e tremendamente taciturno. Sa usare il coltello con inquietante precisione e muoversi con grazia quasi poetica all’interno di una narrazione dai mille volti.
Il cinema orientale ama alla follia questi silenti indecifrabili assassini su commissione. L’hard boiled di Hong Kong e lo yakuza movie giapponese sono il loro habitat naturale. Lì la loro violenta e l’impenetrabile personalità possono muoversi con disinvoltura fra metropoli e luci al neon, seminando incanto e brutalità.
A dirigere questa pellicola di silenzi, crudo realismo e poesia è Sabu, al secolo Hyroyuzi Tanaka. “Mr. Long” è un ulteriore prova di come ogni abusato ingrediente da blockbuster americano, nelle mani giuste, possa rivelarsi ottima sostanza per un film d’autore. I suoi film sono un miscuglio di molti elementi, componenti talvolta così distanti da vivere di vita propria, riuniti misteriosamente in modo assennato e intrigante.
Sabu, attore e sceneggiatore divenuto poi regista, si fa conoscere, fin dagli esordi, per la sua regia eccentrica e multiforme. Ha firmato lo spiazzante successo “Miss Zombie”, un horror spietato, tragico, estremo. Ha sorpreso con “Chasuke’s Journey”, un quasi “Cielo Sopra a Berl..ops..Okinawa”, lasciando però scivolare il surreale nella romantic comedy e trapelare il demenziale ricorrendo a ritmi action, il tutto con una naturalezza disarmante. “Mr. Long” (2017) è un altrettanto succulento melodramma dai molti generi e dalla molte suggestioni. Sarcasmo oscuro e brutalità visionaria sono gli elementi predominanti, come da rispettabile tradizione nipponica. Kurosawa, Kitano e Miike insegnano. Il film è ispirato da immagini sporcate dal sangue, ma la sceneggiatura è in equilibrio tra favola e tragedia, rievocando alla mente il bel cinema commosso di Hirokazu Kor’eda.
“Mr. Long” (Chang Chen) ha gli occhi affollati di pensieri, ma a quei pensieri non regalerà mai voce. È molto più abile con la lama che con le parole. È un killer di professione, di quelli che non fanno domande e evitano di dare risposte. Dopo aver fatto scorrere abbondati litri di sangue a Taiwan, viene inviato in Giappone per uccidere un membro della Yakuza. Questa volta però il suo coltello retrattile si inceppa, e la vittima prestabilita sopravvive. Il gangster con chioma biondo platino (sembianze che molto ricordano il Kakihara di “Ichi the Killer”) gli sguinzaglia contro i suoi bruti tirapiedi. Mr. Long corre nella notte fino a quando i suoi inseguitori non lo perdono di vista. Ferito e senza fiato, si lascia cadere per strada, fra le baracche nella periferia di Tokio.
Lì, in un quartiere abitato da solitudini e miseria, dovrà provare a restare in vita in attesa della prossima barca per Taiwan. Forse per caso, o forse come insolito dono del destino, arriva Jun (Runyin Bai), un bambino dal viso dolcissimo che conosce la sua lingua. Jun gli porta cibo, vestiti, qualcosa per medicare le ferite. Mr. Long inizia a ricambiare queste attenzioni cucinando per lui. I loro primi incontri durano poco più del tempo necessario per uno mero scambio: qualche maglietta pulita in cambio di una zuppa calda. La fama di ottimo cuoco dell’uomo però si diffonde in fretta. Alcuni socievoli vicini lo aiuteranno, fino a quasi buffamente costringerlo, a mettere in piedi un piccolo chiosco di noodles.
Mr. Long inizia a costruire una vita che non avrebbe mai immaginato, con la tenera piccola ombra di Jun sempre al seguito. Il nostro spietato killer mette da parte il coltello per un po’, restando quasi sempre in silenzio, lasciando che i vicini si prodighino per lui. Dapprima incapace di opporsi al loro irragionevole entusiasmo imprenditoriale, si scoprirà timoroso di deludere il loro sincero affetto. La madre di Jun, Lily (Yao Yiti) ha un passato terribile alle spalle e Mr. Long, con fare certamente burbero ma estremamente umano, proverà a restituire il favore al piccolo Jun offrendo a sua madre un aiuto per allontanarsi dalle droghe. Ma il passato, quello tremendamente feroce, non si lascia mai mettere all’angolo facilemente, e tornerà ad esigere considerazione sia alla porta della giovane Lily, sia a quella del non più killer Mr. Long.
Sabu conosce a menadito tutte le regole dello yakuza movie d’autore, avendo recitato da attore proprio nel celeberrimo “Ichi the Killer” del brutale Miike. E per questo “Mr. Long” non poteva non avvalersi efficacemente di tutti gli espedienti narrativi del genere. Eppure il film sa prendere le distanze dalle atmosfere gangsteristiche, abbeverandosi alla fonte dell’action solo a piccoli sebben molto dissetanti sorsi.
Fin da subito il selvaggio universo criminale appare espropriato della sua radicale tensione, come a suggerire che l’animo di Mr. Long non vive più dei suoi sussulti. Il film si rivela attento non tanto alle dinamiche thriller quanto ingordo di delicatezza – i teneri primi piani regalati a Jun – e di atmosfere meló – la ricostruzione del passato di Lily. Vi è ampio spazio anche per una dose di genuina commedia, affidata agli improbabili abitanti del quartiere, che decidono di fidarsi del silenziosissimo straniero, senza mai sospettare che la sua predisposizione alluso dei coltelli avesse originariamente tutt’altro scopo.
Ci sono inoltre tutti gli elementi del kitchen movie, dato che l’assassino su commissione si ricicla come raffinato chef di noodles. È il cibo a creare un primo miracoloso contatto fra Long e il piccolo Jun, un piccolo focolare attorno al quale prende vita una comunità. Tutte queste componenti possono legittimamente far pensare che Sabu abbia davvero messo troppa carne al fuoco questa volta, ma a ben riflettere solo nelle fiabe autentiche possiamo trovare riso, tenerezza, violenza, paura e morte nell’arco di una sola narrazione. Per di più fotografia e montaggio aderiscono perfettamente alle continue peripezie fra i generi della sceneggiatura, mutando stile visivo in pieno rispetto del poliedrico racconto.
“Mr. Long” è immerso nel silenzio. La voce del protagonista la sentiamo per la prima volta dopo circa mezz’ora. Sabu (regista innamorato del silenzio, c’è lo aveva già fatto ben intuire in “Miss Zombie”) riesce in modo perfetto a costruire intorno al suo personaggio principale un muro di incomunicabilità. Il suo isolamento, oltre che dal suo scostante temperamento, è causato dal parlare un’altra lingua. Long parla taiwanese, mentre nel sobborgo di Tokio ascolta senza poter replicare gli abitanti parlare giapponese.
Interessante in quest’ottica notare come i primi piani non siano dispensati solo ai volti dei personaggi, bensì offerti anche ai gesti, agli oggetti, ai fumi delle pentole, alle mani che preparano il cibo, ai coltelli che si muovono veloci e precisi sui taglieri. È un cinema di corpi e sostanza, che si lascia toccare e annusare, ma sceglie di rimanere per diversi minuti in silenzio, lasciando che la narrazione sgorghi con naturalezza, trasportando con sé tutte le sue molteplici sembianze.
“Mr. Long” è film nutrito a idee familiari e schemi narrativi già sperimentati (lo straniero immerso in buffi contesti che non comprende, un bimbo testardo con il compito di sciogliere l’imperturbabilità del killer) ma la pellicola è irradiata da un’inaspettata eleganza e non pecca di prepotenza alcuna. Con un finale così potente, liberatorio, iperbolico (tanto da sembrare intenzionato a ricordare la memorabile scena del corridoio di “Old Boy“) non era facile continuare ad avere pieno controllo sulla riuscita della pellicola. Ma “Mr. Long”, pur non rivelandosi sperimentale o selvaggiamente originale, è un film bello da guardare, in ogni momento.
“Mr. Long” è una strana fiaba, che sgomita fra sangue e miseria ma sa raggiungerci con la leggerezza di un componimento colmo di ispirazione accarezzato dalla speranza.