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Pinocchio di Matteo Garrone

La trasposizione cinematografica di opere letterarie è un’operazione decisamente insidiosa, anche se ti chiami Matteo Garrone e devi la tua fama anche, se non soprattutto, al film Gomorra, tratto dall’omonimo best seller di Roberto Saviano. La scelta di prendere in esame, poi, il libro più tradotto della storia dopo la Bibbia, sicuramente non gioca a tuo favore. In più, se si considera che il Pinocchio di Collodi è già entrato nelle sale e nelle televisioni decine di volte, allora l’impresa diventa quasi insostenibile, a meno che tu non riesca a realizzare un vero e proprio capolavoro. E Matteo Garrone, con il suo Pinocchio, ha davvero compiuto un miracolo praticamente inedito per il nostro cinema. Forse il fatto che ipotizzasse la sua versione del burattino senza fili dalla tenera età di sei anni, con tanto di storyboard accuratissimo, reso visibile dallo stesso regista, ha aiutato notevolmente a raggiungere un così alto grado di eccellenza.

Pinocchio

Sarebbe inutile perdere tempo e spazio a raccontare la storia. Tutti, in tutto il mondo la conoscono. Il primo aspetto che colpisce guardando la versione garroniana del burattino di legno, è che il regista ha sfruttato la straordinaria componente immaginifica e affabulatoria del romanzo originale, senza praticamente modificarlo o reinterpretarlo. Tutti coloro che si erano cimentati nella trasposizione (teatrale, televisiva o cinematografica) del testo di Collodi, infatti, avevano lavorato molto su una sorta di riesame di Pinocchio, con aggiunte e invenzioni create assolutamente dal nulla. E questo discorso vale anche per lo sceneggiato televisivo capolavoro diretto da Luigi Comencini nel 1972. In quell’opera cult le invenzioni sono parecchie, e quella che salta più all’occhio è senza dubbio il fatto che il Gatto e la Volpe siano di fatto dipendenti di Mangiafuoco. Non parliamo poi della trasposizione di Pinocchio realizzata da Benigni con un budget inimmaginabile (42 milioni di euro) , sulla scia degli Oscar vinti per La Vita è bella.

Il fatto che Garrone ha capito perfettamente, è che un’opera fiume come quella di Collodi, così tanto evocativa e allegorica, perfetta nella sua labirintica complessità, non si può manomettere per questioni interpretative, ma al massimo ridurre per motivi di esigenze narrative. Chiunque abbia letto e amato il romanzo, troverà nella versione di Garrone la sua perfetta rappresentazione.

Particolarmente suggestiva è l’atmosfera generale che il regista ha saputo creare attorno al suo film. Lo stesso Garrone ha dichiarato che, contrariamente a quanto si è letto un po’ dappertutto nei mesi e nelle settimane precedenti all’uscita del film, la sua versione di Pinocchio non sarebbe stata una favola gotica, una visione crepuscolare e grottesca del testo di Collodi, ma semplicemente il tentativo di portare sullo schermo la rappresentazione più fedele al testo originale, e da un punto di vista narrativo, e sotto l’aspetto visivo (per i look dei personaggi si è fortemente ispirato alle illustrazioni di Enrico Mazzanti, l’unico illustratore che ha lavorato a stretto contatto con l’autore di Pinocchio). E il risultato è semplicemente sfavillante. Guardando Pinocchio ci si rende conto di cosa significasse la povertà ai tempi in cui è stato scritto il libro (1881-83). Si percepiscono la fame, gli stenti, l’odore di fieno, lo scoppiettare del fuocherello dell’osteria del paese, che Geppetto e molti altri personaggi vivono quotidianamente. Guardandoli negli occhi non si può non notare un certo sconforto verso il futuro, che non si era mai prospettato così nero. Insomma, il film di Garrone, prima che semplice trasposizione cinematografica di un classico della letteratura mondiale, è una riflessione sull’umanità, che tocca le corde più profonde del cuore degli spettatori.

Pinocchio

Proprio per questa sua attenzione sociale, lo stesso regista romano fa fatica a definire il racconto rappresentato come appartenente al genere fantasy. Per lui il fantastico presuppone dei mondi inesistenti che prendono magicamente vita, come avviene con Il Signore degli Anelli o con il suo bellissimo Il racconto dei racconti, tratto dall’omonima raccolta di fiabe di Giambattista Basile. Per realizzare Pinocchio, invece, occorre conoscere molto in profondità il retroterra sociale, politico e geografico in cui la storia è inserita. Il lavoro di Garrone e del suo team, è stato anche di ricerca, di documentazione e di ricostruzione della Toscana contadina di fine Ottocento.

Ma nel Pinocchio del 2019, non c’è soltanto la più riuscita resa cinematografica dell’estrema povertà di cui trasuda il racconto originale, ma anche il perfetto equilibrio tra momenti comici e scene di pura inquietudine, per non dire di terrore, che il romanzo di Collodi è riuscito, come pochi altri nella storia della letteratura, a mescolare efficacemente. Tutto in Pinocchio è potenzialmente un inganno, una minaccia. Il giudice-scimmione condanna gli innocenti che dovrebbe difendere, l’omino di burro, con la sua vocina delicata e il suo modo di fare premuroso, si rivela il peggiore dei malfattori, il maestro, che dovrebbe educare i propri allievi, sembra godere solamente nel punirli e nell’umiliarli. Pinocchio, nel libro originale, è perennemente in fuga da qualcuno o da qualcosa, perché, di fatto, tutto è minaccioso ai suoi occhi. E anche questo aspetto nel film di Garrone è perfettamente riuscito.

Pinocchio

Pinocchio però colpisce soprattutto sotto l’aspetto visivo. Il regista ha voluto utilizzare il meno possibile gli effetti speciali digitali, preferendo, quando possibile, quelli artigianali. Tra l’altro questa decisione è stata anche uno dei motivi per cui il progetto, inizialmente previsto dopo Il racconto dei racconti, è slittato di alcuni anni. Garrone infatti, voleva ingaggiare il miglior truccatore sulla piazza per il suo film e, tutti i nomi che aveva preso in considerazione non gli avevano assicurato la propria disponibilità. Così nel frattempo ha realizzato Dogman, film che gli ha permesso di conoscere il make-up artist due volte premio Oscar Mark Coulier, che ha fatto un lavoro straordinario specialmente con il protagonista e le altre marionette. Ma in generale tutto l’apparato tecnico di Pinocchio è eccezionale, dal costumista (Massimo Cantini Parrini) al direttore della fotografia (Nicolaj Bruel) fino ad arrivare allo scenografo (Dimitri Capuani) e al compositore premio Oscar Dario Marianelli. Tra l’altro la colonna sonora, almeno nel suo tema principale, ricorda sia lo straordinario lavoro di Fiorenzo Carpi nello sceneggiato del 1972, sia le melodie composte da Nicola Piovani per la versione di Benigni, risultando una specie di omaggio molto delicato e a tratti struggente.

Non si possono, inoltre, non applaudire gli interpreti di questa versione del romanzo di Collodi. In primo luogo lo straordinario Federico Ielapi, che Matteo Garrone ha definito “bambino bionico” per la sua pazienza e costanza nel sottoporsi ogni giorno, prima delle riprese, a ben quattro ore di trucco. Ma l’interprete di Pinocchio, già visto al cinema in Quo Vado?, dove interpretava il piccolo Checco Zalone, non è stato solo straordinario nella preparazione al ruolo, ma anche nell’interpretazione. Per la prima volta da sempre, non vediamo un Pinocchio insolente e scapestrato per indole, ma vediamo un bambino che vuole scoprire il mondo che lo circonda in modo del tutto ingenuo, spinto semplicemente da una curiosità insaziabile. Le sue malefatte e i suoi errori, non sono mai cercati di proposito, ma lo colpiscono quasi sempre di sorpresa, in modo trasversale e imprevedibile. Lo stesso meccanismo viene attuato nel delineare il personaggio di Lucignolo. L’amico di Pinocchio è quanto più vicino al Lucignolo originale non sia mai stato portato sullo schermo. E’ la vittima di una società che non aiuta chi ne avrebbe davvero bisogno, ma che interpreta i meno fortunati come cause perse, da isolare ed estromettere con forza dall’educazione e da qualsiasi altra forma di progressione sociale. Nel volto da scugnizzo del Lucignolo di Garrone, non si legge la cattiveria, ma la rabbia e la voglia di rivalsa di un vinto che vuole riscattarsi ma che non ha i mezzi per farlo.

Pinocchio

Ma la vera star del film, il cui nome campeggia addirittura a caratteri cubitali sopra la locandina, è senza dubbio Roberto Benigni. Il regista de La Vita è Bella in questa versione di Pinocchio, storia a cui è molto legato sia professionalmente sia biograficamente, interpreta Geppetto. Anche in questo caso la figura del falegname che plasma il burattino ha finalmente subito una metamorfosi nella sua concezione di fondo, che mai era stata sviluppata al cinema o in televisione, ma che emerge con grande forza nel romanzo. Geppetto è sempre stato rappresentato (fin dal semplicistico Pinocchio di Disney), come una sorta di padre amorevole, che costruisce il burattino per ovviare alla sua insopportabile mancanza di prole. In realtà la molla che spinge il falegname a costruirsi una marionetta nel libro è tutt’altra, molto meno nobile ed estremamente pragmatica. Vuole infatti fare il giro del mondo con la sua superba creazione e guadagnare una volta per tutte abbastanza denaro da poter vivere dignitosamente. Solo in un secondo momento, quando percepisce che Pinocchio è vivo, diventa una sorta di padre del burattino. Il personaggio affidato a Benigni, è proprio questo Mangiafuoco mancato (non è casuale che lo stesso Mangiafuoco abbia compassione di Geppetto e dia al burattino i cinque zecchini d’oro). E l’ex Pinocchio si comporta divinamente in questi panni, nel ruolo forse più difficile della carriera.

Ottimo è anche il resto del cast: la musa di Ozon Marine Vacth nel ruolo della Fata Turchina, Gigi Proietti nei panni di Mangiafuoco, Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo in quelli della Volpe e del Gatto.

In conclusione, il Pinocchio di Garrone è un film che forse in Italia non si era mai visto in tempi recenti. Una pellicola profondamente internazionale in tutte le sue componenti, come il regista romano ormai ci ha abituati a portare in sala. Un’opera che fa strabuzzare gli occhi a tutti gli spettatori non solo dal punto di vista visivo (la fotografia e la scenografia, in particolare, sono eccellenti), ma anche toccandogli il cuore. E come se il rumore legnoso dei passi del burattino, scandisse il percorso che la nostra anima compie una volta che i sensi si perdono in tutto quel mondo, povero e ricco al tempo stesso, che ancora oggi ci ammalia leggendo il testo di Collodi.

Voto Autore: [usr 4,5]

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