I lacci, prima di poter essere riallacciati, devono essere slacciati, ovvero, fuor dal gioco di parole, la natura di un legame e degli individui che lo tengono in piedi spesso dipende dalla distanza che il legame stesso genera in chi lo intrattiene e dalle modalità di avvicinamento, contatto ed allontanamento cui offre la sponda. Serve parlarne in un film? Rispondiamo forse; rispondiamo anche; rispondiamo che non ci pare subito evidente, ma, aggiungiamo, visto il tempo di restrizioni e dilemmi in cui ci è dato vivere, questa tematica, pur abusata e mai letteralmente sfinita, in cui la differenza la fa il come e non il cosa, potrebbe diventare meno banale che mai.
Presentato fuori concorso in apertura della 77. Mostra Internazionale del festival di Venezia, breve oasi di tregua durante la chiusura estenuante delle sale dovuta alla pandemia, come ad indicare un chiaro, onorevole ed oneroso segnale di ripartenza sotto l’egida della produzione italiana, l’ultimo film di Daniele Luchetti è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, autore già frequentato dal regista (da cui aveva già tratto per il grande schermo il celebre cult La scuola), qui cosceneggiatore insieme a Francesco Piccolo e a Luchetti stesso, e ci porta all’interno della dinamica di un tradimento di coppia e delle sue conseguenze sofferte, illusoriamente rimediabili, proiettate sui protagonisti e sui loro figli.
Aldo (Luigi Lo Cascio) e Vanda (Alba Rohrwacher) sono sposati, hanno due bambini Sandro ed Anna e vivono a Napoli: lei insegna, lui invece prende un treno ogni settimana per andare a Roma dove lavora in radio come conduttore in un programma di approfondimento su libri e letteratura; Aldo confessa a bruciapelo alla moglie il tradimento con un’altra donna, Lidia (Linda Caridi), una collega che non è solo una sbandata, ma un nuovo innamoramento e la famiglia si spacca: a Roma, lui, a Napoli, lei con i figli. Separazione tormentata, vissuta male, con picchi di disperazione da parte di lei e reticenze irresponsabili da parte di lui; il tempo pare offrire alla frattura un compromesso di stabilità, rivelando le fragilità del nuovo legame d’amore tra Aldo e Lidia, la mancanza di fondamenti a lungo termine, la poca nettezza delle intenzioni: così l’uomo rientra in famiglia. L’unione riallacciata sembra durare, come un oggetto esteriormente cicatrizzato, interiormente affranto; a farne le spese una malcelata sopportazione reciproca tra due attempati partner (Laura Morante e Silvio Orlando, nei ruoli di Vanda e Nara anziani) e l’elaborazione di un distacco esasperato e libertario da parte dei figli adulti (interpretati da Adriano Giannini e Giovanna Mezzogiorno).
Dramma verbale, in cui si intrecciano stagioni e momenti, come lacci delle scarpe che si annodano su se stessi e si sciolgono solo alla fine, quando le scarpe si tolgono e si rimane scalzi; opera di interni, soprattutto, di dialoghi-confessioni, fin troppo composti, cerebrali, quasi mai fisici, dunque superstiti della superficie non del profondo, vittime dell’intelligenza non dell’esperienza. Strutturalmente tutto quel che deve accadere è stipato nelle scene iniziali e nella prima parte; a seguire ne vediamo le conseguenze, secondo uno schema narrativo che sovrappone i piani temporali i quali ci appaiono accostati, ma questa concatenazione elide con azzardata scioltezza il cambiamento d’epoche e di stati d’animo, nonchè l’età che avanza, creando un’inerzia che concede solo di essere sfiorati non trafitti dalla situazione: assistiamo non partecipiamo.
Ci si muove a partire dagli anni ottanta fino ad arrivare grossomodo ai giorni nostri, con estrema leggerezza, nonostante il crinale emotivo percorso sia tutt’altro che facile. I sentimenti profondi non ammettono viltà; bisogna avere coraggio per consacrarsi; Aldo sfugge, è muto, non si espone, Vanda lotta e quasi muore per un modello di vita ideale non reale, pronta a rivalersi su chi l’ha fatta soffrire; entrambi sono analfabeti della felicità, non sanno come si esercita, non maturano insieme per sperimentarla, e quando se ne accorgono hanno quella vaghezza inefficace del pianto di coccodrillo; marito e moglie si riprendono per definizione, per paura, per qualcosa mai messo a fuoco del tutto, senza sapere di quanto rancore il tempo gli farà dono, quali mali ed insicurezze la reciproca condotta può ancora causare, quanta micro-disperazione può venire a galla da un niente; lo schiaffo finale datogli dai figli è l’unica ventata banalmente crudele e concretamente reattiva ammissibile, auspicabile ed accettabile.
Resta nel racconto qualcosa di letterario in cui si incespica, una qualità del dire non dell’agire, una freddezza di contorno, una disattenzione alla profondità di certi sconforti gettati lì come da prassi che invece prassi, per chi li vive davvero, non sono mai: un tentato suicidio passato in cavalleria, una figlia piena di ostinazione negativa verso il padre assente risolta e dimenticata in una sola giornata insieme, una riappacificazione sostanzialmente indolore dopo assenze che si dicono dolorississime, una casa svaligiata e semidistrutta che suscita nulla più che un fastidio snervante oltre il disagio affrettato di nascondere possibili scheletri latenti che a distanza di trent’anni ancora non devono essere nominati o scoperti. Forse sarebbe stato più interessante tutto ciò che non vediamo rispetto a quanto invece rappresentato; più forte di quel che c’è è ciò che non c’è.
Sostanzialmente sembra il discreto poco fascino della borghesia, che in gioventù veleggia beffarda e non troppo verosimile sui propri panni sporchi, che vive nel disastro come dice la Vanda saggia di Laura Morante, preda di umorismo dolente, la giovinezza agiata che attutisce il melodramma, troppo verace e volgare per essere ascoltato e rappresentato, che si defila nella prosa ragionata e compiaciuta di sé, che si recrimina un po’ addosso, facendosi dell’inutile autoterapia a posteriori, che nasconde ogni filo di sana e rivoluzionaria inquietudine sotto lo zerbino del proprio appartamento, ampio, confortevole, santuario di piccole disgrazie.
In questo senso la scena che ci sembra più riuscita e che ci risveglia dal torpore di non-necessità del tutto è quella finale, una rivolta caotica e sgraziata di figli che per sopravvivere devono e dovranno, come mito insegna, distruggere i padri e le madri, da cui sembra ereditino, per volontà naturale o per destino, una programmatica, apatica, asfissiante infelicità.
Cast che punta sui sicuri del mestiere e un po’ sul facile, non proprio armonizzato rispetto alla storia, ma più della non esemplare coerenza di volti e fisici tra un personaggio giovane ed uno adulto, pesa la presenza di nomi celebri, sempre noti, sempre quelli, sempre un po’ se stessi, ripiegati in forme comode a cui sono e siamo abituati. Abitudini interpretative, abitudini contenutistiche, abitudini formali, cui si aggiunge un gusto dell’epoca dato quasi esclusivamente dal costume vintage sfoggiato di volta in volta dalle giovani protagoniste; nulla di più.
Ci sembra quasi che molta verità dietro questo film sia espressa da una frase profetica in esso contenuta: per stare insieme bisogna parlare poco, l’indispensabile e tacere tanto. Ecco Lacci di questo motto paradossale, provocatorio e in qualche modo veritiero, è la beffarda e un po’ stanca contraddizione.