La stanza, terzo lungometraggio di Stefano Lodovichi, approdato su Amazon Prime Video lo scorso 4 gennaio, ha alla base un’idea visiva molto forte. Nato come documentario per raccontare il fenomeno degli hikikomori, il film si è trasformato diventando un’opera di finzione, dove l’aspetto estetico ha un ruolo centrale in tutta la narrazione. La scenografia, la fotografia e la regia contribuiscono a rendere accattivante il palcoscenico su cui si gioca tutto. Siamo in una vecchia casa-hotel, le cui pareti sono segnate dal passare degli anni e regna la polvere, ma è comunque un luogo di un’eleganza impressionante. Così come il protagonista femminile, interpretato da Camilla Filippi, pur mostrandosi straziata dalla sua disperazione che cresce dall’inizio alla fine del film, mantiene una propria eleganza nei movimenti e negli sguardi. Lodovichi si dimostra capace di mettere in scena questa ambivalenza, riesce ad esaltare l’estetica di questo luogo affascinante e al contempo minaccioso.
È nella prima parte che il film gioca le sue carte migliori. Quando ancora non è chiaro ciò che sta succedendo, ma è evidente che qualcosa non va. Dall’introduzione del personaggio di Guido Caprino – colui che smuove tutti gli eventi – veniamo investiti da un forte straniamento che ci conduce fino alla prima svolta narrativa. È chiaro che non tutto è come sembra in quella casa ed è proprio in quelle zone d’ombra, in mezzo al non detto, che si nasconde il centro di questa storia, la cui vera natura verrà svelata solo nella seconda parte. La tensione cresce anche e soprattutto per merito della regia, attenta a raccontarci le sfumature ambigue degli ambienti e dei personaggi. I movimenti di macchina sono lenti, anch’essi eleganti, interessati a mostrarci quell’estetica di cui si nutre tutto il film e che diventerà l’origine della componente thriller presente nella seconda parte.
La stanza, infatti, a dispetto di quanto possa sembrare a un primo sguardo, non è propriamente un horror, bensì un thriller o, volendo, un dramma familiare che attinge a componenti addirittura fantascientifiche. Il problema è che il mistero che tiene in piedi il film viene svelato troppo presto e quanto succede dopo, per quanto possa essere drammaturgicamente interessante, non ha più quella carica che aveva il film prima del plot twist. Una volta chiaro quale sia il nodo attorno a cui gira il film, si perde quell’originalità che l’opera aveva avuto all’inizio e le trovate narrative e visive cominciano ad apparire più scontate e banali.
Forse, la colpa di questo è che tutto viene spiegato a parole, più e più volte. I personaggi parlano tra loro e si rivelano cose l’un l’altro (cose che dovrebbero già sapere) ma non c’è naturalità nel loro dialogo. Sembra che parlino, più che per loro stessi, per chi guarda il film e il tutto diventa eccessivamente didascalico ed esplicito. Allo stesso modo, il repentino cambio d’idea di uno dei personaggi prima del finale sembra assecondare più il bisogno di spiegare allo spettatore come stanno realmente le cose, piuttosto che fungere da reale evoluzione del personaggio.
Il film si risolleva proprio nel finale, un finale dolce che abbandona le sfumature più drammatiche che avevano dominato fino a quel momento. L’inquadratura conclusiva ci regala un personaggio protagonista profondamente diverso da quello che avevamo conosciuto all’inizio del film.
La stanza resta comunque un’opera ben riuscita sotto vari aspetti, merito anche delle interpretazioni, a partire dalla protagonista femminile Camilla Filippi, genuina nella propria disperazione. Guido Caprino, invece, si mostra più convincente nella prima parte, quando ancora non sappiamo nulla di lui e quella ingenua gentilezza che si porta appresso lascia trasparire un’inquietante ambiguità. Verso il finale, purtroppo, il suo ruolo si trasformerà quasi in una caricatura, poco coerente con il contesto in cui si svolgono le sue azioni. Molto convincente anche Edoardo Pesce, che già aveva avuto modo di dimostrare il proprio talento in Dogman e che qui per certi aspetti lo vediamo subire un trattamento simile a quello del suo personaggio nel film di Garrone. Gli attori coinvolti credono nei loro personaggi e nella storia, così come è evidente che ci creda lo stesso Lodovichi. Forse è proprio per questo che ha sentito il bisogno di rendere tutto esplicito, per paura che la storia che voleva raccontare non sarebbe stata compresa appieno. Avrebbe forse giovato, invece, non sapere tutto, o comunque non saperlo direttamente dalle parole dei personaggi.