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Interstellar

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L’amore è una cosa banale. No, non per chi lo prova e sperimenta, bensì per quelli che ormai da secoli lo trovano e ritrovano in qualunque opera creata dall’uomo. Che siano libri, dischi o lungometraggi, non fa differenza. Amore, amore. Amore ovunque, fino alla nausea. Ora, immergetevi nei panni costosi di Christopher Nolan, acclamato regista capace di trasformare in oro praticamente ogni cosa. Davanti a voi c’è un copione vuoto. In alto, come unica scritta, troneggia il titolo: Interstellar. Come lo riempiamo questo foglio?

Facile, penserete. Spazio, stelle, astronavi e magari qualche pianeta sconosciuto da visitare. Va bene, ma non basta. Ambientazione pre-apocalittica, con la razza umana a rischio estinzione?
Fantastico, eppure manca ancora qualcosa. E cosa? Esatto. Proprio quella parola. È possibile, nel 2014, parlare d’amore senza essere banali?

In un XXI secolo che di familiare non ha nulla, il mondo è stato invaso. Stavolta però la colpa non è degli alieni, e nemmeno dei sovietici. Il mondo, nel XXI secolo, è stato invaso dalla polvere. Una piaga sconosciuta ha colpito la natura divorandone l’essenza. Immensi campi di verde intenso hanno ceduto il passo a distese informi prive di vita. I vegetali coltivabili stanno diventando sempre meno e molto presto, secondo alcuni, non ne rimarranno più.

Ciò che ormai abbonda è la polvere, che gratta l’anima e inaridisce ogni cosa. Cooper, un ingegnere ed ex pilota della NASA, tira a campare nella fattoria di famiglia. Assieme a lui, un figlio destinato a mandare avanti la baracca, una figlia brillante che giura e spergiura di vedere un fantasma ed un suocero tranquillo, attempato e disilluso. Fuori dalla finestra, un’unica e interminabile piantagione di mais. Chi ha tentato con coraggio di coltivare altro, ha perso tutto.

Cooper è l’unico, all’interno di un ecosistema che punta solo e soltanto alla sopravvivenza, a spostare ogni tanto gli occhi verso il cielo. Quelle stelle, un tempo così vicine, ora sembrano distanti una vita. L’uomo non può più permettersi di scrutare l’infinito. Nel XXI secolo, di infinito, c’è solo il deserto.

Proprio per questo, e non casualmente, sarà l’elemento più strano di questo quadro, ovvero il presunto fantasma sentito dalla piccola Murph, a mettere in moto la storia. Una storia che condurrà l’ex pilota sulle tracce della speranza, attraverso lo Spazio. Lontano dalla Terra, per salvarla, o almeno per salvare quei pochi individui che la abitano ancora. Allontanando l’occhio ed acuendo la vista, c’è un dettaglio che spicca su tutti. Interstellar non è un film lineare, bensì un trittico d’arte scandito dai secondi.

Nella fase iniziale abbiamo il mondo che in parte credevamo di conoscere. Il vento, la polvere. La desolazione bruciante di una civiltà ormai pronta a decadere. Al centro, lo Spazio. Asettico, ma vivo. Vuoto, ma pieno. Nuovi personaggi, disegni e piani che ci infiammano fino alla passione. Il tutto avvolto dal suono nostalgico e ovattato delle parole. Infine, il terzo blocco, su cui non diremo nemmeno una parola. Ogni fase del film contiene un germoglio che dapprima piccolo, pian piano cresce, sfondando il terriccio della fase successiva. La trama, ricca di riferimenti scientifici e situazioni verosimili, procede con lucida cadenza affrescando il tutto, nonostante qualche incertezza nella fase critica che precede il finale.

La relativa carenza numerica dei personaggi facilita il compito. Ognuno di loro riceve un cantuccio proprio in cui fermentare, fino alla vetta. Al di sopra di tutti, ancora una volta, c’è Matthew McConaughey, che si presenta come sempre in forma smagliante. Ormai abbandonati i ruoli da super macho in tensione dei primi anni duemila, l’attore texano si conferma uno degli interpreti più versatili degli ultimi decenni, dando vita ad un personaggio in grado di comunicare entusiasmo, forza e disperazione senza mai smettere di essere umano.

Quando gli occhi saranno fissi sulla terra arida e sporca, o intenti a contemplare lo spazio ipnotico dell’universo, toccherà alle orecchie mandarvi segnali di gioia.

Ormai pluripresente, il maestro Hans Zimmer costruisce con cura un impianto sonoro ricco e sfaccettato. I maestosi silenzi, già sperimentati nel Cavaliere Oscuro – Il Ritorno, riaffiorano più cupi ed assordanti che mai. Nonostante il blasone del compositore tedesco, aggiungere nuovi pezzi al mosaico infinito dell’epica spaziale non era facile affatto. Eppure, l’operazione riesce, senza nemmeno battere ciglio.
Da segnalare gli effetti speciali che, premiati agli Oscar del 2015, non cercano di stupire lo spettatore con scenari impossibili, conferendo invece alla pellicola un’aura di realismo e granitica credibilità. Almeno, fino al terzo blocco.

Bisognerebbe parlare a lungo di Interstellar, analizzare ogni singola componente narrativa, ogni similitudine che pronta sull’uscio, se richiamata, senza indugio emergerebbe. Eppure, quando un’opera contiene così tanti elementi illuminati dall’emozione, parlarne troppo diventa superfluo. Ognuno potrebbe avvertire qualcosa, lasciando salire quel fremito che richiama alla mente storie del passato. Per questo motivo, imporre visioni o stabilire a priori dei punti significherebbe fare soltanto del puro esercizio accademico.

Una cosa però la possiamo dire.
Interstellar è una delle più belle e maestose metafore mai prodotte sull’amore. Perché in fondo, ogni parola della trama, ogni nota della colonna sonora, ogni squarcio della scenografia, sarebbe inutile, senza quelle fatidiche cinque letterine. E alla fine, come nella vita, tutto parte dall’inizio. È possibile, nel 2014, parlare d’amore senza essere banali?

Beh. A quanto pare, sì.

Voto Autore: [usr 5,0]

Diego Scordino
Diego Scordino
Amante di tutto ciò che abbia una storia, leggo, guardo e ascolto cercando sempre qualcosa che mi ispiri. Adoro Lovecraft e Zafòn, ho passato notti insonni dietro Fringe e non riesco a smettere di guardare Matrix e Il Padrino. Non importa il genere, mi basta sentire i brividi.

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