Il professore (Valerio Mastandrea), uomo silenzioso, scorbutico e stralunato, che se ne vive steso su un divano in mezzo al deserto del Nevada, a due passi dalla sua bislacca roulotte, indossando una tuta bianca anti-epidemia, quasi abbracciato ad un’antenna parabolica per captare suoni dallo spazio profondo, sperava piombasse tra le sue mani materiale alieno doc. In particolare suoni spaziali che Linda, il decoder complesso da lui creato e finanziato dal governo degli Stati Uniti, aveva interpretato come voce della moglie, venuta a mancare cinque anni prima.
Dunque lui era lì, intento ad ascoltare il cielo, mogio e taciturno, come ogni giorno, nella speranza di riudire quel segnale così importante, quando si vede giungere,aspettati e temuti, due nipoti, Anita (Chiara Stella Riccio) e Tito (Luca Esposito), rispettivamente di sedici e sette anni, eredità del fratello vedovo, morto anche lui da poco in quel di Napoli, città natale anche del professore.
I due ragazzi pensavano di ritrovarsi in America, dal famoso e geniale zio che aveva fatto fortuna con le sue invenzioni ed il suo talento, ma si ritrovano schiacciati tra il nulla geografico che li circonda, la routine misteriosa e scostante dell’impreparato zio, le incursioni di Stella (Clemence Poesy), sua papabile neo-fidanzata, ufficialmente autista del professore ed organizzatrice di matrimoni per turisti con il mito degli alieni e i marines della vicina Area 51, incaricati di interrompere il sovvenzionamento del progetto ufficiale dello strampalato scienziato, nel quale, lui per primo, sta progressivamente affondando, senza ottenere risultati.
La fantascienza taumaturgica della regista Paola Randi, qui alla sua seconda direzione di lungometraggio dopo Intoparadiso del 2011, si raccoglie ed esplode in questa commedia di difficile definizione, storia fantastica e favola sentimentale, girata tra Stati Uniti, Italia e Spagna nel 2018, presentata al 35. Festival Internazionale del Film di Torino e vincitrice del Nastro d’argento 2019, per il miglior soggetto.
In una fotografia assolata ma contraddistinta da solo colori freddi, che attirano l’attenzione e al contempo la distanziano, come fossimo sul pianeta lunare privato del professore, fatto di bianco, turchese e blu, atterrano gli alieni di turno, che non sono giganti, verdi, con manie di conquista o distruzione, ma piccoli, napoletani, con sogni umanissimi, come vedere Las Vegas o poter parlare con il papà che non c’è più.
Si ritrovano sullo stesso suolo, due linguaggi diversi, due fazioni, i ragazzi ed il professore, in un incontro spielberghiano del terzo tipo, delle cui suggestioni risente ovviamente la regista: due mondi, due generazioni, due aspirazioni differenti, destinate in apparenza a non comunicare, ma accomunate dallo stesso problematico bisogno: metabolizzare la morte.
La Randi, gioca ed intreccia leggi dell’astrofisica e dinamiche emotive classiche, per ritagliare un orizzonte di speranza su misura per i cuori addolorati dei protagonisti; per sua stessa ammissione lo spazio ed i principi che lo governano sono fonte inesauribile di domande e risposte sull’esistenza umana; paragoni tra creature e teorie dell’universo riguardano chi siamo, da dove proveniamo, cosa ci potrà succedere oltre la soglia del visibile, un passo prima ed un passo dopo di “essere”; dunque sono humus perfetto per cercare di dare un senso alla mortalità degli esseri umani.
Di qui la scelta di affidare ai suoni alieni e ad un varco spaziale che capita rarissimamente negli anni terrestri, una sorta di panacea dalle pene mortali, il graal contro il mal di vivere, il sollievo dai limiti della conoscenza, l’assoluzione dal male fatto o ricevuto, dall’ingiustizia, dalla solitudine, dall’errore, immaginando un avvicinamento con chi non c’è più, ricostruendo una distanza altrimenti siderale, riallacciando il filo di rapporti importanti interrotti bruscamente in questa nostra fallibile dimensione terrestre.
Le presenze che furono umane ed ora non lo sono più, con le quali finalmente si addiviene ad un simil-contatto, appaiono come ologrammi deambulanti, ombre passeggianti in un interstizio tra spazio e tempo, in grado di fermare la propria camminata per andare incontro a chi li ha cercati, sono sagome in viaggio da dove e verso dove non si sa, che portano in volto la risposta alle nostre mancanze, la consolazione per quella personale particolare ferita che ognuno ha con sé.
Si dice, forse, che siano il ricordo di chi non c’è più, qualcosa dunque che è stato, che già conosciamo e che perciò ha per noi potere consolatorio, come la luce delle stelle che vediamo, ma di cui non sappiamo se appartenga ad un corpo che ha smesso di brillare o è ancora vivo da qualche parte.
Così, lo sconvolgimento della morte, ammala la memoria, bloccandola in un punto, ed essa persiste come luce viaggiante, sopravvive alle distanze, insiste come un peso sulle anime, impedendone lo sviluppo: infatti il professore vive incartato nei suoi progetti prodigiosi e malinconici rincorrendo una felicità che non può essere più, Anita desidera la libertà e la leggerezza dei suoi sedici anni finora troppo severi con lei e Tito vuole tornare a casa da suo padre che in foto non gli risponde mai.
Nostalgico ed efficace il buon Mastandrea si muove tra silenzi ed impaccio esistenziale che, indosso, gli conosciamo bene, costretto ad aggiornare il proprio dolore, tutto descritto in un ballo romantico con il suo goffo decoder, mentre i due ragazzi sono una gradita scoperta e la loro energia sferzante costituisce il naturale antidoto all’alienazione esistenziale in cui è precipitato lo zio.
Accompagnati da una fin troppo scoperta colonna sonora, alienaggio ed allunaggio si intersecano dandosi man forte, in un territorio simbolico, cinematograficamente parlante, spoglio e colmo, depresso nella terra e rivolto verso il cielo, vettore di passi avanti per l’umanità sotto ogni interpretazione, per metafora e beffa, collocato vicino al suolo in cui si dice e pare siano arrivati gli alieni quelli veri.
La scienza dunque si piega e si spiega nel sentimento, in una fiaba, essenziale, sostanzialmente prevedibile, fatta di geografie, buoni sentimenti, cartapesta, stop-motion grossolana, maldestri tratti onirici, effetti speciali poco speciali, ed introspezione dei personaggi minima, ma più che chiara.
Traina lo spunto, accattivante, coraggioso e poco frequentato, almeno nelle esperienze filmiche italiane, in grado di catalizzare azione, commozione e riflessione in una sensazione finale favorevole.
E se gli alieni fossero gli uomini e le donne che hanno smesso di esistere qui con noi? Ad un cielo futuro la desiderata sentenza.