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Harakiri (Seppuku, 1962) di Masaki Kobayashi

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Presentato nel 1963 alla sedicesima edizione del Festival di Cannes, dove vinse il Prix spécial du Jury, Harakiri (Seppuku, 1962) ha permesso all’occidente di scoprire uno dei più straordinari registi del cinema nipponico: Masaki Kobayashi. Autore già di rilievo in patria, dove era attivo dal 1952, anno del suo esordio con il film La giovinezza di mio figlio, Kobayashi vantava nel proprio “curriculum” una serie di opere di indiscutibile valore, tra le quali emerge la monumentale trilogia intitolata La condizione umana (Ningen no jōken, 1959-1961).

All’interno di una carriera già avviata e consolidata da più di dieci anni, Harakiri si è inserito come punto di svolta, che ha portato a un’ulteriore evoluzione artistica nella poetica dell’autore. Se, da un lato, Kobayashi manteneva la propria profondità narrativa, dotata di una peculiare vena critica e riflessione sociale, che da sempre contraddistinguevano il suo stile, dall’altro, riponeva una maggiore attenzione verso l’estetica dell’immagine, portando sullo schermo un capolavoro visivo, che, ancora oggi, sembra non aver subito l’erosione del tempo.

Harakiri

Harakiri: la trama

Nel 1630, in pieno periodo Edo (o Tokugawa), l’anziano ronin (samurai caduti in disgrazia o privi di padrone) Hanshiro Tsugumo (Tatsuya Nakadai) si presenta alle porte della residenza del Clan Iyi. Non essendo più in grado di sopportare la situazione di disgrazia in cui si ritrova dopo la caduta del suo padrone, richiede di poter compiere onorevolmente seppuku nel cortile della villa.

L’intendente della famiglia, Kageyu Saito (Rentarō Mikuni), nel tentativo di mettere alla prova la fermezza del suo intento, gli racconta di quanto accaduto a un altro ronin, di nome Motome Chijiwa (Akira Ishihama), giunto al cospetto del clan con la stessa richiesta. In quel caso il consiglio aveva costretto il giovane a praticare seppuku con la stessa arma con cui si era presentato: una spada di bambù. I motivi erano due: la lealtà verso il bushido e scongiurare la pratica ormai diffusa di fingere la volontà di suicidio per ottenere qualcosa in cambio.

L’imperturbabile Hanshiro procede ugualmente con il rituale e al momento dell’esecuzione chiede di poter scegliere lui stesso il kaishakunin (colui che lo aiuterebbe nel trapasso decapitandolo). Non essendo reperibile nessuno dei tre samurai da lui indicati, chiede di poter raccontare la sua storia. In realtà egli conosce molto bene Motome, figlio di un grande amico, divenuto poi sposo di sua figlia Miho (Shima Iwashita) e padre di suo nipote Kingo. Tutto ciò che verrà narrato in seguito dalle parole di Hanshiro, rivelerà un’altra verità celata dietro la versione propugnatagli dallo scaltro intendente.

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Harakiri: una critica alla morale tradizionale

Uno degli aspetti più interessanti di Harakiri è il modo in cui un apparente ritratto storico, si trasformi in un film, che, a livello tematico, possiede una valenza fortemente attuale e atemporale. L’adesione incondizionata e opportunista alle regole del bushido e la rigidità delle convenzioni sociali vengono condannate con estrema chiarezza. Esse sono all’origine della disumanità e dell’ipocrisia che, in determinate realtà, esistevano nel passato e ancora oggi persistono. Ogni fusuma e ogni shoji, man mano che i minuti passano, si aprono sui protagonisti rivelandone la vera natura e permettendo a Kobayashi di indagare l’animo umano. Kobayashi ancora una volta non esprime una posizione politico-partitica ben definita, ma si fa portavoce di un’etica più universale. Decide di sfidare la tradizione nipponica, distruggendone la falsa moralità e rifiutandone l’insensata severità.

Harakiri: filmico e profilmico

In Harakiri ne consegue che nulla è lasciato al caso. La ieraticità delle pose attoriali (figlie del teatro), l’eleganza delle scenografie, le lente carrellate, rispecchiano la superficiale ritualità e solennità dei potenti. Caratteri fittizi che denotano un’apparente purezza prima o poi destinata ad essere macchiata dal sangue dei più deboli, degli ultimi. La distanza tra chi deve comprendere e chi deve essere compreso, viene accentuata dalla posizione e dall’inclinazione della macchina da presa. Il tutto inserito in un magistrale gioco di campi e controcampi.

L’epicità della vicenda, nel senso omerico anche di destino, a cui, in parte, Hanshiro si adatta e, che, in parte, si costruisce, esplode agli occhi dello spettatore nelle splendide immagini su cui è costruito il memorabile terzo duello, tra i più sensazionali e “impressionisti” del genere chanbara (cappa e spada ambientati nel periodo Tokugawa). Tutto questo denota l’assoluta consapevolezza da parte di Kobayashi del mezzo cinematografico. Non solo in quanto strumento di mera riproduzione tecnica, ma come veicolo artistico in grado di trasmettere sensazioni e di evidenziare punti di vista.

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Harakiri: la narrazione

Ed è proprio sui punti di vista che lavora anche lo sceneggiatore Shinobu Hashimoto. Mediante un sopraffino utilizzo di flashback, costruisce la quasi totalità dell’impianto narrativo sul concetto di prospettiva. Attraverso di essa permette allo spettatore di osservare ciò che è realmente accaduto. Espediente che Hashimoto aveva già utilizzato anni prima in un altro grande capolavoro del cinema giapponese (e mondiale!) da lui co-sceneggiato: Rashomon (1950).

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Eppure, se nel film di Akira Kurosawa viene messa in discussione la veridicità di tutte le versioni del racconto, e quindi, il concetto stesso di verità assoluta, in Harakiri, la verità viene a galla nella sua interezza. L’ipocrisia e le ingiustizie di un sistema spietato si palesano con estrema nitidezza. Il singolo diventa metafora del tutto, lo scontro tra classi sociali è inevitabile e il film si fa manifesto. In questo senso l’auspicio del regista è più chiaro che mai. Nel suo dipingere una realtà apparentemente statica, non sostiene l’immutabilità, ma, al contrario, grida al cambiamento. Ogni speranza viene riposta nella sensibilità di chi, nell’opera, riesca a riconoscervi la propria ingiustizia e la propria lotta.

Pacifismo e sentimento antibellico sono frutto dell’esperienza personale di Masaki Kobayashi

La lettura del film non può esimersi dal sottolineare le chiare invocazioni pacifiste e antibelliche che Harakiri porta con sé. Hanshiro non uccide mai i propri avversari e a soffrire le conseguenze della guerra, sono coloro che stanno nel mezzo: i giovani e i bambini. L’attenzione e la dedizione nel portare avanti queste istanze nascono dall’esperienza personale del regista. Kobayashi, entrò a far parte della Shōchiku, una delle più importanti case di produzione cinematografica giapponesi, a partire dal 1941, appena venticinquenne. Otto mesi più tardi fu inviato al fronte in Manciuria e poi nelle isole Riūkyū, dove assistette alla devastazione e alla crudeltà della guerra. Verso il termine del secondo conflitto mondiale venne arrestato e tenuto prigioniero dagli americani presso un campo di detenzione a Okinawa. Rilasciato nel 1946 tornò alla Shōchiku in veste di aiutoregista di Keisuke Kinoshita, ma non riuscì mai a dimenticare le atrocità della Seconda Guerra Mondiale.

Il sodalizio con il leggendario Tatsuya Nakadai

È grazie anche alla formidabile interpretazione di Nakadai Tatsuya se questo film merita di essere visto da qualsiasi cinefilo. Eppure, non si tratta della prima collaborazione tra uno degli attori più belli e maledetti del cinema giapponese e Kobayashi. Anzi, si deve proprio a quest’ultimo la scoperta del talento di Nakadai. Il celebre attore ebbe il suo primo ruolo importante nel nono film del regista: Il fiume nero (Kuroi kawa, 1957). In seguito diventerà, a tutti gli effetti, l’attore preferito del regista che lo utilizzerà in quasi ogni sua altra pellicola.

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In conclusione

Harakiri è una perla del cinema mondiale. Un jidaigeki (drammi storici in costume) atipico. Un’opera capace di demistificare i valori tradizionali giapponesi su cui questo stesso genere fondò la sua ragione d’essere. Un insegnamento di come nell’arte, una volta che forma e contenuto trovano l’equilibrio che permette loro di dialogare al meglio, il risultato non può che essere un capolavoro immortale.

PANORAMICA

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Harakiri (1962) è un dramma di ambientazione storica senza tempo. Un gioiello del cinema giapponese, ancora capace di sorprendere con le sue immagini e di far riflettere con i suoi contenuti. Un film che non può mancare nella "valigia" di ogni cinefilo.
Riccardo Brunello
Riccardo Brunello
Il cinema mi appassiona fin da quando ero un ragazzino. Un amore così forte che mi ha portato ad approfondire sempre di più la settima arte e il mondo che la circonda. Ho un debole per i film d’autore e per il cinema orientale, ma, allo stesso tempo, non riesco a fare a meno di un multisala, un secchio di popcorn, una bibita fresca e un bel blockbuster.

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