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Fa’ la cosa giusta

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1989. Nel cuore di Brooklyn la temperatura è rovente. “Fa la cosa giusta” è una marea di umanità che cammina davanti alla telecamera di Spike Lee: un mare di genti che grida, insulta, vive, e sopravvive.

Terroni sfollati mangia-spaghetti, scimmioni con denti d’argento e la catena d’oro al collo, occhi a mandorla, mangia fagioli. Sono italo-americani, afro-americani, asiatici, e ispanici. Guardano dritto in camera e, con voci sudate, urlano sentenze grondanti d’odio.

24 ore tra le vie di un quartiere in cui la mazza da baseball è sempre pronta a colpire e le parole hanno l’odore acre della polvere da sparo. 24 ore in cui poliziotti bianchi alzano il manganello, mentre la comunità nera viene uccisa per il volume troppo alto. Bastano molto meno di 24 ore per una rivolta.

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Fa’ la cosa giusta
Vito (Richard Edson); Pino (John Turturro); Mookie (Spike Lee)

Brutale, rissoso, sovversivo, fazioso? No. “Fa’ la cosa giusta” è spietatamente pacifista.

Spike Lee rimane in ascolto di una bomba che sta per esplodere, tendendo l’orecchio riusciamo a sentirne il fastidioso ticchettio: i conflitti non possono nascondersi a lungo sotto il tappeto. In strada si cammina mano nella mano con il pregiudizio e la coesistenza sembra lontanissima dal diventare integrazione. La telecamera, incauta, solleva il tappeto. La furia invade lo schermo. L’ambizione di disarmare l’America dell’arma più fatale, l’odio, provando a sputarcelo in faccia. Imbrattati di rancore potremmo desiderare di ripulirci e decidere di svegliarci dal torpore dell’intolleranza. È questa la rivoluzionaria lotta contro il potere del regista di Atlanta.

Spike Lee il cinema te lo sbatte dritto in faccia, ti costringe a sbattere la fronte contro quella dei suoi personaggi, ad accogliere i loro sfoghi spesso gocciolanti di insulti, ad incrinare la testa nel tentativo di raddrizzare i suoi “angoli olandesi”: quelle sue inquadrature storte, disorientanti, da cui si teme che i personaggi possano scivolare via. In “Fa’ la cosa giusta” risiede tutto il suo sfrenato spirito.

Fa’ la cosa giusta
Fa’ la cosa giusta, 1989

Una fotografia traboccante di colore, un’estetica da videoclip, un montaggio dinamico, il rap dei Public Enemy che scuote corpi e coscienze, una telecamera che guarda fisso negli occhi dei personaggi, liberandoli dal loro inferno personale.  “Fa’ la cosa giusta” non poteva che essere suo. Il film più di Spike Lee fra quelli di Spike Lee.

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Fu presentato in Concorso al Festival di Cannes, ma escluso dal palmarès. Ai successivi Oscar il film ricevette due candidature, pur non aggiudicandosi alcun premio. Il premio come miglior film andò a “A spasso con Daisy”. Un altro film con neri e bianchi dunque, che l’Accademy deve aver giudicato indubbiamente più rassicuranti. Anche all’ultima cerimonia degli Oscar il rabbioso regista di Atlanta aveva un titolo in concorso – “BlacKKKlansman” – che ha trionfato come miglior sceneggiatura non originale, ma è stato battuto come miglior film da “Green Book”. Un film che tanti hanno paragonato a “A spasso con Daisy”. Dunque a trent’anni di distanza è rimasta la stessa urgenza di curarsi dal morbo del razzismo, e forse anche la medesima paura di urlare tale esigenza con troppo clamore, la stessa propensione a confinarla entro fattezze meno allarmanti.

Fa’ la cosa giusta
Radio Raheem (Bill Nunn) e lo stereo Ghetto Blaster che suona “Fight the Power” dei Public Enemy

“Fa’ la cosa giusta” è un film vivissimo, un intrico di cavi elettrici così ben annodati l’uno all’altro che è impossibile districarli senza rimanerne folgorati.

In una caldissima giornata d’estate tutti scendono in strada. Alla radio DJ Mister Señor Love Daddy (Samuel L. Jackson) ringrazia Aretha Franklin per aver donato al mondo un po’ di bellezza. Smiley predica sul marciapiede gli insegnamenti di Malcom X e Reverendo King. Radio Raheem, con uno stereo “ghetto blaster” sempre in spalla, pompa “Fight The Power” dei Public Enemy. L’intero quartiere è riunito intorno alla pizzeria di Sal (Danny Aiello) e dei suoi figli (John Turturro e Richard Edson), unici italo-americani nel quartiere. Mookie (interpretato dallo stesso Spike Lee) è l’unico impiegato nero della pizzeria. Alle pareti di quel piccolo universo tricolore farinoso e unto troneggiano le immagini di Sophia Loren, Frank Sinatra e Al Pacino. Bugging Out (Giancarlo Esposito) pretende che anche la foto di Micheal Jordan sia appesa a quella parete.

La tensione razziale è sempre presente: mentre il cliente nero dichiara il proprio odio verso i bianchi con un trancio di italianissima pizza in mano, o mentre il proprietario bianco manifesta goffamente la propria ammirazione per Eddy Murphy e Prince, giudicandoli “meno neri” rispetto a quelli a cui distribuisce pizze ogni giorno nel suo locale. È un’acredine impacciata e grottesca quella che Lee sceglie di descrivere. Un semplice gesto di autodifesa. Un’azione necessaria per salvaguardare la propria identità culturale. Nulla che possa essere assimilato ad un reale atteggiamento razzista. Eppure quell’attrito si fa sempre più acuto, fino a scoppiare violentemente.

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Mister Señor Love Daddy (Samuel L. Jackson)

“Fa’ la cosa giusta” è una favole sul bene e sul male, un’eterna competizione che non ha vincitori, ma solo vinti. Il Reverendo King diceva che la vecchia legge dell’occhio per occhio ci avrebbe reso tutti ciechi. Malcom X che nulla può essere definito violenza, se si tratta di auto difesa; perché in tal caso sarebbe corretto parlare di intelligenza. Spike Lee non intende indicarci quale sia la strada da seguire, ma invitarci a restare svegli. Samuel “Love Daddy” Jackson ci esorta dal suo microfono: “Wake Up”! Siate svegli, siate lucidi: capaci di riconoscere i lineamenti dell’intolleranza e di mettervi al riparo dal fanatismo. Una volta svegli, forse, riusciremo a capire quale sia la cosa giusta da fare.

Voto Autore: [usr 5.0]

Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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