Il giornalista americano Maury Henry Biddle Paul coniò, nel 1915, il termine Cafè society per indicare tutta quella gente mondana, i personaggi dello spettacolo e gli artisti che erano soliti riunirsi nei caffè e nei club di New York, Parigi e Londra. L’appellativo entrò nel gergo popolare solamente negli anni trenta, durante il proibizionismo, e Woody Allen, dichiaratosi da sempre affascinato dal medesimo periodo storico, omaggia questi anni con un omonimo film nel 2016.
Ma oltre al sentimentalismo di Allen, Cafè Society rappresenta il punto di svolta nella filmografia del regista. Primo lavoro girato interamente in digitale, il film abbandona quella che è l’immagine statica in favore di una narrazione più fluida e meno patinata (termine che solitamente viene affiancato ai prodotti realizzati in pellicola). Nonostante la progressione tecnologica, Cafè Society, nel complesso, rispetta i codici utilizzati nel cinema classico hollywoodiano dei primi anni trenta, le inquadrature sono spesso in campo totale, pochi stacchi e numerose transizioni geometriche (una delle più utilizzate negli anni del cinema muto era l’iris, un oscuramento circolare dello schermo o apparizione graduale dal nero all’immagine in forma circolare). Siamo nell’era in cui il cinema hollywoodiano ha raggiunto il massimo sviluppo, nella sperimentazione dei primi piani e nel boom economico legato allo star system (infatti Allen non può fare a meno di mostrarci le abitazioni ‘cafonissime’ di Beverly Hills). Quella lucentezza in grado di abbagliare i giovani aspiranti attori e attrici di Hollywood, viene enfatizzata dall’occhio visionario di Vittorio Storaro, direttore della fotografia, che per la prima volta lavora al fianco del regista newyorkese.
Le scelte cromatiche adottate variano in base alle vicende che vedono coinvolti i personaggi e i luoghi dove esse vengono ambientate. Mentre per il Bronx, città d’origine del protagonista Robert/Bobby, si opta per un processo di desaturazione dell’immagine, per la New York di fine narrazione, in cui il protagonista ha raggiunto una stabilità economica, la fotografia diventa omogenea, rispettando il giusto contrasto tra luci e ombre in cui i colori sono riproposti nella loro forma originaria senza essere snaturati. A fare la differenza è invece tutto il blocco narrativo centrale, in cui il protagonista viene travolto da una nuova avventura – sia lavorativa che sentimentale. La sua incredulità viene rappresentata attraverso la fissità dei colori, a predominare è una fotografia calda che ricorda il tepore del sole nei pomeriggi d’estate.
Bobby, interpretato da Jesse Eisenberg, incarna il classico personaggio maschile alleniano, per alcuni versi fedele al suo creatore e all’Alvy Singer di Annie Hall (1997). Ebreo, inadatto al mondo che viene raccontato, Robert/Bobby si posiziona a metà tra la noia e la fascinazione dell’ignoto, esattamente come il suo doppio appellativo che varia in seguito alla sua evoluzione. Inaspettatamente dotato di spirito umoristico e innamorato di una donna che non può avere (Vonnie), Bobby diventa la parte lesa di un triangolo amoroso.
Per fortuna ad accompagnare la visione c’è la voce di un narratore comprensivo e amorevole, interpretato dallo stesso Woody Allen, che rassicura lo spettatore come una figura paterna. Il suo intervento diventa il collante tra diverse situazioni, funge da sintesi per le ellissi temporali ed esterna i sentimenti dei protagonisti confusi. Che la scelta sia ricaduta proprio sul regista lascia pensare che si stia assistendo ad un racconto autobiografico, in cui i nomi e i volti dei protagonisti vengono distorti dall’immaginazione del narratore, o che sia una fiaba di altri tempi, tempi lontani dalla nostra generazione. In questi momenti di intimità anche la macchina da presa si ammorbidisce e passa dalle inquadrature fisse a lunghi piani sequenza e carrelli che volteggiano tra i corpi dei protagonisti.
In Cafè Society, lo stile narrativo di Allen approda nel campo letterario, dove coesistono differenti generi (drama, gangster e comedy) e personaggi, ognuno di loro gode di autonomia propria e spessore psicologico. Il protagonista però non coincide con l’eroe romantico della letteratura classica, ma incarna una personalità moderna in cui il fallimento, è comunque considerato come un punto di non ritorno, ma non è tangibile, al contrario, lacera dall’interno senza mostrare segni evidenti al di fuori. Il film quindi diventa un’analisi sull’esistenza dell’uomo in cui destino e volere non coincidono. Quando si ritrova a dover fare i conti con la vita, l’ormai maturo Robert, si accorge di essere stato manipolato dalle situazioni e di aver riposto in secondo piano i sentimenti. La narrazione non si conclude del tutto ma lascia una porta socchiusa. La speranza resta, ma il rimorso non riesce a mollare la presa tant’è che il fatidico “come sarebbe stato se…” prende il sopravvento.
Woody Allen esaurisce in ’90 minuti una storia lunga una vita, il ritmo della narrazione non poteva che essere frenetico ma, ciò che lascia non è altro che il sapore amaro dell’irrisolto. Una commedia privata sul finale dell’happy end, così tanto atteso da lasciar riflettere lo spettatore solamente nel momento in cui compaiono i titoli di coda.
Voto Autore: [usr 3,5]
Voto Autore: [usr 4,0]