Bangla

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Ventiduenne metà nero, metà bianco, come il cappuccino, sangue bangla ossia del Bangladesh, cittadinanza italiana, nato a Roma due anni dopo che i suoi ci si sono trasferiti, vissuto rigorosamente a Torpignattara, il quartiere più multietnico della capitale, steward in un museo, musicista dilettante per locali e matrimoni con la sua band i Moon Studio composta insieme ai suoi amici di razza, Phaym (Phaym Bhuyan), studente di cinema dello IED, protagonista nonché regista del film, con il suo accento romano, la testa buona, l’aria vispa e l’indole romantica, si aggira tra le vie del suo quartiere presentandocelo e autopresentandosi.

E’ qui che è cresciuto, ha conosciuto ragazzi delle sue terre ed italiani, è qui che si fa le sue chiacchierate assurde e buffe con Matteo (Simone Liberati) il pusher del parco, è qui che segue da bravo musulmano gli insegnamenti dell’ imam, è qui che divide la sua casa, un dignitosissimo seminterrato con i genitori, madre forte e severa, padre lavoratore accanito e nostalgico del passato, sorella studentessa di giurisprudenza in procinto di sposarsi con un ragazzo ovviamente bangla ed ovviamente per bene, è qui che ogni giorno gli viene ripetuto prima il lavoro poi il matrimonio, con esaltazione sistemica della gloriosa Londra, città delle opportunità, dove ogni bangladesho o bangladino –che dir si voglia- trova la propria fortuna.

Bangla

Tra gli incroci iperaffollati della zona, i tram che passano metodici sferragliando con un rumore impossibile, l’odore inconfondibile di lasagna, curry e kebab che regala sensazioni psichedeliche, ma non va fatto notare agli abitanti, pena male risposte, Phaym è il ritratto perfetto degli immigrati di seconda generazione, tutt’uno con il suolo che calpestano almeno quanto i coetanei italiani, con occhi aperti, pronti a captare e svecchiare i luoghi comuni, a smontare conflitti culturali che per loro non hanno ragione di essere, trasformando ogni divergenza in opportunità.

E’ l’insieme di cittadini del mondo che popola ogni angolo di terra e che ha in sè talmente tante lingue, culture e tradizioni da non sentirsi definito per appartenenza, o predestinazione razziale; possono pregare cinque volte al giorno su un tappeto e fare aperitivo in un pub di periferia, poichè posseggono già in sé le risorse per fare il salto nel complicato e contraddittorio mondo occidentale, tagliando i ponti con usanze che i propri genitori portano avanti con dedizione religiosa, anacronistica e spesso ottusa.

Phaym è sufficientemente sveglio e indipendente da vivere bene il processo e la quotidianità dell’integrazione, ma certo non manca di porsi domande; la cosa che gli pesa di più è la mancanza di una donna, intoccabili per i musulmani a meno che non si tratti della propria moglie: ad un concorso musicale a cui partecipa con poche speranze insieme al suo gruppo, incontra Asia (Carlotta Antonelli), italianissima ragazza, spigliata, estroversa, sorridente, molto carina; è amore a prima vista per entrambi.

Lei lo invita ad uscire, lo porta a pranzo a casa, gli fa conoscere la sua famiglia allargata, comica ed amichevole, lo bacia; lui si lascia trasportare, ma ha il freno a mano tirato, goffamente incastrato nel doppio dilemma per cui amare la tanto desiderata ragazza lo porterebbe da una parte a trasgredire il suo credo che gli impone castità fino al matrimonio, dall’altra a deludere le aspettative di famiglia che lo vogliono ben sistemato, a fianco di una donna rigorosamente del Bangladesh, accasato definitivamente probabilmente neanche in Italia, “considerata ormai corridoio di passaggio”, ma altrove.

Bangla

Così si susseguono i vari avvicinamenti e allontanamenti della neo-coppia, novelli Romeo e Giulietta, anche se i problemi, qui, pare averli solo Romeo, tra fraintendimenti e mancanza di coraggio, una lotta con se stessi, un tira e molla semiserio in cui è necessario fare dei passi forse più grandi della propria età per assumersi la responsabilità non tanto del futuro, oggi incontrollabile, quanto del presente.

Commedia azzeccata, di buona verve, che ha il pregio di non drammatizzare il serio e di allontanarsi dalla fin troppo comune intro in cui si capta la benevolenza del pubblico contestualizzando la storia in modo agile e giovanile, per precipitare presto, con grazia maldestra ma efficace, negli incastri degli avvenimenti.

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Gli eventi, normalissimi step di ogni relazione in itinere tra una giovane coppia, lasciano affiorare tutti i limiti e le controversie legate ad una sorta di “razzismo di ritorno”, un’intolleranza invertita, che intere comunità di immigrati civilmente sdoganano e tramandano tra le vie dei quartieri in cui vivono, e con cui mantengono vive e vegete differenze culturali e pregiudizi o meglio post-giudizi (nati ex-post dal contatto prolungato con la popolazione ospitante).

Così rapporti ed identità stentano a non cambiare, e difficilmente ci si lascia contaminare, mossi ciascuno dalla propria storia, dal passato, dalla fatica fatta, dalle personali odissee, paure e convinzioni; l’interazione latita, si rischia la staticità ed una dilagante, velenosa tristezza, a maggior ragione in un universo necessariamente multirazziale come quello contemporaneo. Fortuna che le giovani generazioni lo sanno e scalpitano per non porsi il problema, per abbattere la barriera il prima possibile o quantomeno sbugiardarla, andando a vedere di fatto cosa c’è dietro il sentito dire, l’apparente diversità.

Le stesse religioni non aiutano, anzi, posso rendere le cose più complesse: il terrorismo ha reso temibile la fede musulmana, ma non è questo a preoccupare un giovane di ventidue anni, semmai la fatica quotidiana nel conciliare la propria buona volontà con la natura dei divieti: il fumo, l’alcool, la carne di maiale, il sesso, difficile restare indifferenti e ligi alla regola se si vive in una società occidentale che anche su questi “peccati” basa la propria identità magnetica e contaminante.

Acerbi gli attori coetanei di Phaym e Asia, esclusi i protagonisti e lo straniante Pietro Sermonti improbabile e bizzarro padre della giovane: questa ingenuità nel cast si traduce in una buona autenticità di situazione che immerge ancor più il mondo raccontato nella condizione che sottopelle lo scinde.

Bangla

Non fa male Bangla, ma agevola una riflessione spontanea e di agile presa sui ragazzi più giovani: non a caso è stato presentato come evento speciale Alice nella città 2018, sezione autonoma della Festa del cinema di Roma, e nel giro di un paio d’anni ha riscosso riconoscimenti e premi tra cui il Nastro d’argento 2019 per la miglior commedia e il David di Donatello 2020 come miglior regista esordiente, anche grazie alla ventata di freschezza ragionata che come cinema di seconda generazione è in grado di fornire, riflettendo su se stesso.

Buon ritmo, alcune battute particolarmente sagaci, ironia non di prima mano per smontare clichè, Bangla si introduce nel problema restandoci invischiato, non presta il fianco a facili lieti fini o a soluzioni didascaliche, che poco reggerebbero alla prova della verosimiglianza, ma lascia nello spettatore un senso di positività, una consapevolezza profonda e leggera insieme, una promessa che, quand’anche il futuro non esista, se restasse in mano a giovani come Asia e Phaym, sicuramente conoscerebbe meno odio di quanto ne stiamo conoscendo noi.

PANORAMICA

Regia
Soggetto e sceneggiatura
Interpreti
Emozioni

SOMMARIO

Storia d'amore tra un'italiana ed un ragazzo bangla, ossia, Romeo e Giulietta ai tempi delle seconde generazioni, tra impacci, clichè culturali, miopie religiose e razzismo di ritorno. Debutto registico intelligente, ironico, non consolatorio. Miglior Commedia ai Nastri d'argento 2019; miglior regista esordiente ai David di Donatello 2020.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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